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Sulla frontiera occidentale della Libia

L’auto corre a più di cento all’ora. E questo senza che l’autista tunisino abbia l’aria di far caso alla tempesta di sabbia che spazza la strada sin dal mattino. Eppure la visibilità non va oltre i cento metri. Il caldo è soffocante e il vento che viene dal Sahara avvolge l’aria in una spessa coltre di polvere. Il sole stesso sembra essersi smarrito e del suo abituale splendore non resta altro che un piccolo disco timidamente luminoso.

Centotrenta chilometri separano Tataouine dal posto di confine di Dehiba-Wazan sulla frontiera libica. Dopo Tataouine incrociamo un flusso incessante di veicoli libici.
Camion, pick-up e berline di fabbricazione giapponese e coreana sembrano edifici costruiti alla meglio con materassi, tappeti legati con lo spago e teloni per proteggere quello che i loro proprietari sono riusciti a portare con sé. Fuggono dai combattimenti e soprattutto dai bombardamenti che imperversano da dieci mesi nel gebel Nefussah, a ovest della Libia. I
ragazzi giovani e i padri di famiglia accompagnano i loro cari in Tunisia per poi ripartire quasi immediatamente e senza troppo attardarsi. Prendono spesso la via del ritorno per difendere gelosamente le loro città, i loro villaggi respingendo i ripetuti assalti dei soldati di Gheddafi.

Due settimane fa l’accerchiamento del gebel è stato interrotto dalla presa, o meglio dalla ripresa di Nalut prima, di Wazan poi e infine del posto di frontiera, ad opera degli insorti libici il 21 aprile. Obbligando quel giorno 89 soldati e 13 ufficiali pro-Gheddafi ad arrendersi alle autorità militari tunisine. Quel giorno furono uccisi una decina di militari libici e 25 feriti mentre tra i ribelli si conta un solo ferito.

Da quel giorno, gli insorti tengono bene, nonostante la ripresa della posizione – durata alcune ore – da parte delle milizie di Gheddafi giovedì scorso, il 28 aprile.

Gli scontri, quel giorno, sono addirittura proseguiti sul territorio tunisino, gettando nel panico il villaggio di Dehiba situato a tre chilometri dal posto di frontiera. Dei razzi sono stati lanciati sul villaggio tunisino provocando molti feriti, e sono stati scambiati molti colpi sia da una parte che dall’altra. Alla fine le milizie si sono dovute ritirare, respinte prima dalle pietre lanciate dai furiosi abitanti del villaggio tunisino, poi dagli insorti e infine dall’esercito tunisino. Quest’ultimo d’altro canto nell’occasione ha sequestrato una quindicina di pick-up e molte munizioni. I combattimenti sono durati molte ore e alcuni miliziani di Gheddafi, feriti, sono stati arrestati per poi essere portati all’ospedale di Tataouine. Il giorno seguente una folla di libici pro-insorti tentava un assalto ma l’esercito tunisino interveniva ancora una volta per evitare ogni forma di rappresaglia. Approfittando della confusione attorno al posto di frontiera di Dehiba-Wazan, gli insorti hanno finito per riprenderne il controllo senza mai più lasciarlo.

Nel pomeriggio di sabato, dei libici che vivono in Irlanda sono arrivati, prima via mare e poi via terra, al posto di frontiera portando otto furgoni pieni di materiale medico e due ambulanze, di cui una ha trainato l’altra per più di duecento chilometri. Il materiale appena scaricato dal lato tunisino è stato caricato nuovamente su altri camion e pick-up destinati a raggiungere il gebel. Dopo lo sforzo l’abbraccio è collettivo. Gioioso e affettuoso.

Alcuni medici tunisini attendono, dal gebel, l’arrivo incerto ma sempre probabile di feriti. Hanno sempre facce sorridenti ma i loro occhi coperti da occhiali da sole lasciano tuttavia intravedere un’evidente stanchezza. Sono arrivati da tutta la Tunisia per aiutare i loro fratelli libici. Aspettano fumandosi qualche sigaretta e conversando, approfittando di un momento di calma. Delle carovane organizzate dai comitati o consigli popolari sono arrivate da ogni parte del paese per portare ai libici tutto ciò che sono riusciti a raccogliere. Viveri, medicinali, giocattoli, coperte, pannolini, etc. Incrociamo persone di Gabès, Djerba, Tunisi e di altri luoghi.

Agli uffici della dogana c’è la ressa. La minuscola stanza sotto il mercato coperto è invasa da decine di uomini che tentano di accelerare le procedure di ingresso sul territorio tunisino. I doganieri cercano senza successo di mettere una specie di ordine a questa situazione. E mentre gli uomini agitano a mo’ di ventaglio i loro passaporti verdi con sopra un aquila, le donne e i bambini aspettano nelle macchine roventi e piene fino all’orlo.  Le macchine scorrono a decine, forse più di un centinaio. Una piccola barriera metallica sormontata da una bandiera degli insorti interrompe questa fila in due, fila percorsa senza sosta da volontari della mezzaluna rossa tunisina che distribuiscono acqua e dolciumi, assicurandosi che non vi
siano malati e che tutto proceda per il meglio. Dal lato libico, dietro un piccolo tavolo, gli insorti raccolgono le identità di tutti quelli che attraversano la frontiera, un modo come un altro per ammazzare il tempo. La maggior parte di loro sono seduti su delle sedie o per terra, preferibilmente all’ombra, le armi in mano o tra le gambe.


Sono circa una sessantina gli insorti che si sono distribuiti tra tutti gli edifici di frontiera crivellati dai colpi. Il simbolo amazigh è dipinto un po’ dappertutto sui muri poiché occorre sapere che questa frontiera taglia un territorio densamente popolato da berberi. Berberi libici a cui Gheddafi non ha mai riconosciuto lo status di tribù, così che il gebel Nefussah è sempre stato chiamato gebel Al-Gharbi.

Al posto di frontiera, alla vista del solo pick-up armato di min ta, ci si domanda come abbiano fatto gli insorti a tenere testa alle truppe di Gheddafi. La maggior parte dei veicoli da combattimento degli insorti sono ripartiti per Nalut. Ma dai racconti fatti dai combattenti, la loro determinazione sembra più forte di quella dei miliziani. Ed è difficile dubitarne. Le discussioni abbondano un po’ dovunque e qui si viene ad assicurarsi delle ultime notizie sputate dai telefoni satellitari. A Nalut, a più di cinquanta chilometri si continua a combattere. Da un piccolo promontorio si può osservare la sola strada asfaltata perdersi lontano e scomparire dopo Wazan nel gebel che rivela così i suoi pendii ripidi e totalmente spogli.

Questo posto di frontiera è una chiave strategica sul fronte occidentale e anche se Zuara e Zawiya, sulla costa della Tripolitana, sono cadute da lungo tempo, impietosamente represse dal potere, il gebel si batte ancora. Separato dal fronte orientale, può contare solo sulla Tunisia per gli approvvigionamenti. Prima di conquistare questo posto di frontiera, c’era solo il deserto per far passare dei prodotti di prima necessità e per fuggire, ma solo di notte e a fari spenti. Oggi, controllare questo posto di frontiera significa controllare una delle poche strade asfaltate che collegano la Tunisia alla Libia. Quella del nord è in mano ai miliziani e la
bandiera verde aleggia sempre su Ras Jdir.

I militari libici sembrano essere scomparsi dopo che alcuni di loro hanno deciso di disertare. Queste defezioni malgrado tutto continuano, ma attraverso il mare. Già il 15 aprile, otto ufficiali libici dello Stato Maggiore tra cui qualche generale erano arrivati in barca al porto di
El-Keft, vicino a Ben Gardene. Il 5 maggio altri sei ufficiali hanno raggiunto lo stesso porto.

Nel frattempo a Ras Jdir i feriti nei combattimenti di Zaoura e Zawiya attraversavano il deserto per non firmare la loro condanna a morte. A Dehiba, vengono accolti senza problemi come ogni malato. Si scambiano numeri di telefono per aiutare coloro che vogliono rifugiarsi in Tunisia.

Si vedono anche camion e altri pick-up ripartire verso il gebel stracolmi di tutto tranne ciò che non si è riusciti a far passare. Le armi e il materiale sensibile come la benzina passeranno altrove, vale a dire ovunque tranne che qui. Le forze di sicurezza tunisine tuttavia ispezionano ogni veicolo con unità cinofile. Poco importa, il contrabbando ha in questa regione una lunga e antica tradizione e come spesso accade in questo genere di circostanze storiche, i contrabbandieri sono per la maggior parte dal lato degli insorti.

Domenica primo maggio, le truppe di Gheddafi hanno lanciato un’offensiva per tentare di impadronirsi di nuovo del posto di frontiera. Circondando Nalut dal nord e usando una pista che attraversa il villaggio di Takuk sulle montagne e che costeggia la frontiera. Pensavano così di sorprendere gli insorti che invece li aspettavano e gli hanno bloccato la strada facendo saltare parte della montagna. Come per vendicarsi di questa abile manovra, le milizie di Gheddafi hanno tirato a caso decine di razzi sulla montagna. Quattro di queste si sono abbattute sul villaggio di Dehiba in Tunisia senza però fare vittime o danni. Gli insorti del gebel hanno replicato durante tutto il pomeriggio. La strada in direzione della Libia è stata bloccata dai militari tunisini che in seguito ne hanno approfittato per costruire delle casematte più grosse vicino a Dehiba.

Giovedì 5 maggio, di mattina, le milizie di Gheddafi sono tornate ancora alla carica ma questa volta dal sud di Wazan. Una quindicina di pick-up, di lanciamissili e qualche blindato per il trasporto truppe hanno dato l’assalto, ma sono stati bloccati dagli insorti a 17 chilometri di distanza. Quattordici granate da mortaio sono tuttavia cadute sul lato tunisino vicino le località di Martaba e Afina mentre si combatteva anche a Ghelaya tra
Wazan e Nalut.

Lo stesso giorno, sfidando il rischio di trovarsi sotto il fuoco dei combattimenti, una carovana di dieci veicoli proveniente da Ben Arous, Sfax, Gabès, Médenine e Tataouine è arrivata a Dehiba, portando ancora medicine e prodotti alimentari. Un altro convoglio di tre camion è arrivato più tardi da La Marsa.

Nonostante si parli di una vasta offensiva di Gheddafi sul gebel, occorre tenere in considerazione che all’ovest il fronte è solidamente in mano agli insorti. Non si indeboliscono e non sono affatto vicini alla ritirata. E anche se il gebel Nefussah dovesse ritrovarsi di nuovo accerchiato, come lo è già stato, non per questo gli insorti si rassegneranno. A sud di Tripoli ci si organizza da una parte all’altra della frontiera. Il combattimento continua e questo combattimento non avrà fine che con nient’altro che la caduta del regime.

Misurata. Amici miei, casa mia, sotto le bombe

Le truppe di Gheddafi stanno fuori da Misurata e ormai si abbatte tutte le notti, dalle dieci di sera alle otto di mattina, una pioggia di razzi e granate sui quartieri residenziali della città. I combattimenti si svolgono ora su un terreno più scoperto, a prima vista meno vantaggioso per gli insorti, ma questi ultimi dimostrano di essere sempre più competenti.

Testimonianza:

“E’ giovedì e domani tutti i negozi saranno chiusi. Di conseguenza, c’è un sacco di gente in giro, la circonvallazione esterna è paralizzata dai posti di blocco che controllano ogni macchina. Ci sono tanti negozi aperti, in tutti i quartieri, cibo, vestiti, qualche supermercato, tutto quello che vuoi. Sto con un amico che si è preso un’ambulanza bella di brutto all’ospedale principale, e pure se facciamo andare le sirene a manetta, non ci si muove nel traffico.

Ma non farti illusioni: non credere che i bombardamenti siano cessati. Bombardano ancora molto la città, pure durante il giorno, però domani è venerdì e ce ne staremo a casa; allora piuttosto che farci seppellire vivi sotto casa nostra, preferiamo morire facendo la spesa. Presto, se Dio vuole, faremo tacere questi BM14 del cazzo e più avanti forse ci occuperemo pure dei Katiuscia, a meno che la NATO non lo faccia al nostro posto. Se non lo fanno loro, lo faremo noi, non è così difficile, ci siamo già riusciti. Questi BM14, li stavamo per zittire stamane, con gli amici della Katiba nera – rinominata Katiba Albouz dalla recente scomparsa del suo carismatico leader Mohamed Albouz. Si sentiva il tipico “ssssscieeerrrrrrrreeeeeeua” che fanno i razzi quando escono dai tubi. Questo suono ci dà parecchio fastidio. Ma ora è finito il tempo degli assalti fatti alla buona, da pischelli, della serie: “comunque Dio è dalla nostra”.

I bombardamenti vanno avanti da 7 ore. Dei tipi strisciano fra i cespugli, con i ferri e le radio VHF, si avvicinano piano piano alle postazioni nemiche. Noi, più indietro, facciamo un diversivo: saliamo a bordo delle nostre macchine blindate alla Mad Max, armate di pezzi da 23mm (antiaerea a proiettili esplosivi) e ogni 5 minuti si parte a svuotare un po’ di caricatori.

Il nemico pensa che ci si accontenti di queste stronzate. Risponde ad artiglieria leggera e mortaio, e a questa distanza, pure senza sentinelle, ci prende sempre in pieno, a volte per una botta di culo. Ma noi non ce la squaglieremo certo per così poco, qui non c’è che gente seria.

Poi c’è un vecchio contadino, una faccia pulita, che si va sulle linee nemiche con un pick-up Peugeot pieno di foraggio per il suo gregge. I ragazzi sono un po’ sbalorditi di questo, fanno meno gli spavaldi. Il vecchio ci dice velocemente dove sono quei figli di puttana, che gli facciamo la pelle.

I ragazzi sono sulla posizione, si sono avvicinati molto; da dove siamo noi, tre squadre partono a fare ricognizione nei dintorni. Di ritorno si discute un sacco. Ci andiamo piano, e gli facciamo arrivare qualche bomba per vedere cosa ne dicono. Forse che basti per farli fuggire?

Dalle retrovie, un’auto con due mortai da 60 e tutto quello che serve è subito arrivata svelta. Mettiamo tutto a posto, regoliamo le cariche sulle bombe con delle tabelle di tiro trovate su internet. Oggi cominciamo con due cariche per bomba. Un tipo che ha un GPS con la bussola orienta i mortai. Consultiamo le carte su Autocad per l’inclinazione (in altri gruppi si usa Google Maps), e cominciamo a fare fuoco un po’ alla volta, senza esagerare. A fianco, in una macchina fregata ai filo-gheddafi e ridipinta di nero (il colore della Katiba), altri tipi ascoltano su una radio ricetrasmittente il rapporto delle vedette. Si rifanno i calcoli e si regola di nuovo. Quando ci saremo, prenderemo a bombardare per davvero e gli faremo vedere i sorci verdi.

Ma non resteremo qui. Il fratello più giovane di Mohamed, che ha ripreso con altri tre ragazzi il comando del fratello, fa andare via tutti. Non c’è bisogno di essere in venti per stare a un mortaio e siamo davvero un bersaglio troppo visibile. Si va un po’ più lontano a preparare del tè e continuare a scherzare e a raccontare delle storie al riparo dagli obici e dai mortai.

Giunta la sera, si va sul tetto con un altro compagno, e si sente lontano un enorme cannone che spara a manetta. Apparentemente la batteria tira da qualche parte a sud, i colpi ci passano sopra e vanno a schiantarsi più a nord facendo enormi lampi bianchi. Ad ogni colpo i
vetri tremano e fanno un chiasso terribile. Ogni volta che usano questo cannone, è la stessa storia, le famiglie scappano dai quartieri presi di mira e vengono a trovare rifugio nei sotterranei del media center. Con tutte le grida e i pianti dei bambini, dormire è impossibile. Le donne vivono così 24 ore su 24, ma noi, solo una notte così, siamo già sbroccati. Allora noi, con Ibrahim che è alle superiori adesso, ce ne restiamo un po’ a prendere aria, e ne approfittiamo per fare un po’ di matematica. Devi contare lo scarto tra il suono e il lampo. Sai già la velocità del suono, quindi non è difficile, un rapido calcolo e viene fuori il risultato: gli obici tirano a più di 5 km davanti a noi e i colpi esplodono a 3 km dietro di noi. Ne cade uno ogni minuto e dieci secondi più o meno, e continua così fino alle 7 o 8 del mattino, per riprendere forse verso le 10-11.
A quell’ora facciamo fatica a svegliarci, ma non importa perché tutti aspettano il via dalla NATO per continuare. Si avanzava in ogni direzione, ma se la NATO ti dice: “non andare oltre, che bombardo!”; non devi muoverti! C’è un tipo all’ospedale che ne sa più di me. Sul fronte si ci annoia di brutto. I gruppi combattenti sono innumerabili. Coloro che combattono dall’inizio non hanno intenzione di lasciare, mentre dei nuovi arrivati entrano in gioco. Solo ad Al Giran, combattono insieme le Katiba seguenti: Anhabaka (nome di un luogo), Shahid (martire), Swerli 1 e 2 (omaggio a Ramadan Swerli, eroe di Misurata), Zamura (famiglia di combattenti), Aljurf e Magaspa. La metà dei gruppi di combattimento della città sono presenti su questo teatro operativo e sono furenti, dato che poco fa un carro armato ha colpito e ucciso tre ragazzi che pascolavano le greggi. Molti li conoscevano personalmente, la notizia si è diffusa per passaparola.

Quest’attesa sarà funesta per i ragazzi dato che la NATO non s’è mossa davvero, mentre il nemico ha ripreso l’offensiva. Salvo nella Katiba Albouz dove la sospensione delle ostilità è improponibile. La NATO farà comunque tacere il cannone e non pochi katiuscia salvo quelli che colpiscono il porto e che uccideranno ancora dei rifugiati africani e qualche civile libico.

I combattimenti sono ripresi, e a Buroweia, vicino ad Al Giran, un vecchio mostra fieramente un Dragonov (fucile di precisione russo d’élite) sottratto al nemico la notte precedente, in un’operazione speciale. Sono partiti in piccolo gruppo verso le tre del mattino, senza fare rumore. Hanno ucciso due nemici, hanno fatto un prigioniero, un nigeriano, sorpreso nel sonno, e hanno messo mano su della roba niente male, due macchine, cinque FN (fucili d’assalto di fabbricazione belga), due Dragonov e un sacco di munizioni per alimentarle. Quando l’ho detto al mio amico della Katiba Albouz, è diventato geloso, “pure a me piacerebbe avere un fucile così. Devo davvero trovarmene uno.”

Il vecchio, non ne ha veramente l’aria, ma è un vero duro. Lui non ha paura della vendetta dei sostenitori di Gheddafi.
“Prendi la mia foto, mostrala a tutto il mondo. Mi chiamo Omar al Wakchi e nessuno mi ucciderà”

Gheddafi non oserà.

Da due giorni i giornalisti sono fuggiti in massa, spaventati dalle voci dell’uso di gas. Infatti, i soldati di Gheddafi sarebbero stati visti portare delle maschere a gas vicino a Zlitan, cittadina a ovest di Misurata. Questa notizia non è stata riportata ufficialmente, tuttavia i giornalisti hanno preferito svignarsela.

“Gheddafi non oserà!” dicevano alcuni. E’ vero che dopo le bombe a grappolo e le bombe incendiarie, sarà più prudente. La maggior parte della sua artiglieria tace, senza dubbio a causa dei bombardamenti della NATO.

Anche i ribelli tacciono. Da sei giorni i gruppi sono fermi sulle loro postazioni per ordine della NATO. Ad Al Giran, in particolare, nessuno ha il permesso di andare oltre il cantiere della nuova ferrovia. Dei combattimenti sporadici e qualche colpo di artiglieria hanno luogo di tanto in tanto. Le truppe di Gheddafi sembrano ritirarsi da più fronti, almeno per il momento, specialmente a Taumina l’altro ieri e a Al Giran oggi.

Le truppe di Gheddafi sembrano vivere tempi duri. I loro spostamenti in colonna all’interno del paese sono divenuti pericolosi a causa delle bombe della NATO. Perdono su tutti i fronti e i loro approvvigionamenti diminuiscono. Si dice per esempio che un litro di benzina in territorio occupato si paghi 5 dinari, 2 volte più caro che in Francia e 25 volte più caro che nelle zone dei ribelli. Nel centro città, le officine funzionano a pieno regime. Bombe  artigianali, granate, mine anticarro, autoblinde, lanciarazzi: si fabbrica tutto ciò che serve per la guerra e lo si fabbrica in massa. Degli standard di produzione si impongono oramai, e si vedono comparire dei nuovi modelli per usi specifici.

Sul fronte, a causa della guerra di posizione, l’uso dell’artiglieria si diffonde, in particolare l’uso del mortaio. Non si vede più il nemico, si indovina la sua presenza al binocolo quando si vede una nube di polvere lontano.

Rompendo la monotonia abituale, Gheddafi ha inviato ieri sera due elicotteri sul porto. I velivoli avrebbero disseminato delle mine terrestri sulla zona di Kasser Hamed. Sono ripartiti senza intralci. Radio NATO, che seguiva l’evento in diretta, si è limitata a qualche commento del genere: “se è un elicottero, allora lo potete abbattere, non dipende da noi.” La NATO sembra concentrarsi sull’aspetto mediatico.

I negozi sono di nuovo pieni, ad eccezione di prodotti molto particolari, come gli omogeneizzati o le sigarette, che mancano ai combattenti. Ma il mercato nero è là per rimediare a questo tipo di carenza.

Notizie

Da quando abbiamo aperto questo blog, riceviamo regolarmente degli articoli dalla Tunisia, dall’Egitto, dalla Libia, da parte di persone presenti al fianco di quelli e quelle che combattono.

Così, a partire da qualche settimana fa, abbiamo cominciato a ricevere testimonianze da Misrata, in Libia, mentre le notizie dei media francesi riguardo a quello che stava succedendo lì si facevano sempre più rare.

Purtroppo abbiamo saputo che uno degli autori di queste testimonianze e articoli, Baptiste, è stato gravemente ferito da un proiettile. I suoi amici fanno circolare un testo -che vi riportiamo qui sotto- per dare qualche novità. Noi siamo con loro, con tutto il cuore, e speriamo che potrà essere trasportato e operato il più presto possibile. (Possiamo inoltrare tutti i messaggi que gli saranno destinati. L’indirizzo mail del blog è il seguente: enroute@riseup.net )

Se vi parliamo di Baptiste*, è perchè, sfortunatamente, un proiettile vagante delle forze Kadhafiste lo ha gravemente ferito in una strada di Misrata, a più di due chilometri dalle zone dei combattimenti. Lui ha conosciuto, e noi con lui, quello che vive la gente di questa città ormai da due mesi, quando si sposta per strada, per difendere i propri quartiere e le proprie case dalle armate di Kadhafi, o quando semplicemente lava i piatti nel mirino di un cecchino. Appoggiare il popolo vuol anche dire assumersi i suoi stessi rischi.

Siamo venuti qui con lui da più di un mese, per sostenere questa rivoluzione, e questo sostegno lo esprimiamo attraverso i diversi media liberi a cui partecipiamo su internet. Inviamo i nostri testi a diversi siti -Rue 89 in particolare, aveva pubblicato uno dei nostri articoli sulla situazione a Misrata. In questa guerra, rendere visibile la vita che s’inventa, è un fronte in quanto tale.

E se abbiamo potuto portare della forza a quelli che lottavano è stato soprattutto essendo presenti al fianco dei Libici in momenti in cui si sentivano abbandonati da tutta la Terra.

La ferita che ha ricevuto al collo obbliga adesso Baptiste a essere operato rapidamente, fuori dalla Libia, per sopravvivere. Per lo stato in cui si trova, i mezzi di trasporto al momento disponibili sono totalmente inadatti. Soltanto un elicottero medico potrebbe trasportarlo. Per queste ragioni, bisogna che la Francia, le cui navi sono a dieci chilometri dalla città, trovi una possibilità d’evacuazione sicura. Degli elicotteri ogni tanto sorvolano Misrata. La diplomazia francese, già impegnata al fianco del nuovo Stato libico, potrebbe metterci a disposizione i suoi mezzi per salvare il nostro amico.

Ringraziamo gli amici libici che ci hanno aiutato sin dal nostro arrivo, e che, per la maggior parte, hanno già vissuto molte esperienze simili dall’inizio della rivolta. Gli insorti non sono le semplici vittime di un tiranno, sono degli uomini liberi che hanno deciso come vivere o morire.

Dei reporter freelance amici di Baptiste.

*Per il momento non comunichiamo il suo cognome per rispetto della famiglia

Lo stato dei combattimenti lungo Tripoli street
Tecniche dell’insurrezione.

Oggi martedì 12 aprile, a Misurata, dopo un mese di combattimenti attorno a Tripoli street, gli shebab hanno lanciato un’offensiva contro il Tamina building. Passo dopo passo gli insorti riprendono il controllo del centro città. RPG o bottiglie molotov contro carri armati e blindati, accanimento e conquista quotidiana degli edifici tenuti dai cecchini, chiusura e strangolamento delle posizioni dei gheddafisti. Per arginare stronzate blaterate da alcuni giornalisti recentemente sbarcati – tipo France 24 o AFP – è importante ricordare che le forze lealiste circondano la città da sei settimane, bloccando tutti gli accessi via terra, le truppe sono in una parte della città, Tripoli street, un’arteria che collega l’asse Tripoli-Bengasi al centro di Misurata. Una posizione che stanno perdendo. Tutto il resto della città è dei ribelli: la centrale elettrica, la fabbrica di desalinizzazione da dove partono i camion di approvvigionamento acqua, il porto e i magazzini. Certo vive grazie alla sue riserve, ma Misurata vive. Ha l’odore della polvere, quella di una città che resiste. Le esplosioni delle bombe danno un ritmo alle notti, ma le grida degli insorti riempiono i vicoli. E’ una guerra asimmetrica, ma una cosa è chiara, in ogni quartiere ed in ogni testa: qui non vogliono truppe straniere, vogliono armi. Non sono miseri, gli shebab, sono fieri ed hanno una forza invincibile perché non hanno paura della morte: i 42 anni passati ricordano loro il senso della loro battaglia: libereranno Misurata, oppure ci moriranno.

All’inizio delle sollevazioni di Misurata, i partigiani della rivoluzione si ritrovavano in una piazza del centro che ormai è deserta: di fatto è resa invivibile per la sua vicinanza al principio di Tripoli street, dove i mercenari tengono la loro posizione principale.

Un mese fa una colonna di settecento uomini ha tentato di prendere Misurata. Il contrattacco della popolazione ha circoscritto l’occupazione a questa via. In seguito la devastazione da parte dei carri armati e l’efficacia dei cecchini hanno trasformato la via in un paesaggio apocalittico.

Il 21 marzo, cinquemila persone marciavano, disarmate, sul viale per recuperare i loro morti. Quel giorno, gli spari sulla folla hanno ucciso quaranta persone e ne hanno ferite altre duecentocinquanta. Questa marcia, questo gesto folle, era ancora un ingenuo tentativo di rompere il dispositivo militare impiegato. Di fatti un pugno di carri armati e dei cecchini imboscati riesce ancora – contro la totalità della popolazione – a fare di questa zona una posizione di forza.

L’urbanistica, che appare d’eredità allo stesso tempo haussmaniana e postmoderna, rivela tutta la sua efficacia. La larghezza dell’arteria si presta più facilmente al movimento dei blindati che alle barricate degli insorti. Offre una gigantesca linea retta per i carri armati, permette posizioni di sostegno alla ritirata dall’esterno della città fino al pieno centro. Sui due lati si dispiega il classico ambiente di tutti i centri città: spazi nudi e spogli sovrastati da edifici per lo più vetrati. Pochi nascondigli, pochi angoli ciechi: l’avanzata avviene allo scoperto. I cadaveri di chi ha preteso attraversare questi larghi spazi per accedere alla base di alcuni edifici ricordano crudelmente che tutto è disposto affinché non succeda nulla.


Però, da quest’arteria che attraversa la città, i lealisti non ottengono solo vantaggi. Dal punto di vista strategico, gli uomini di Gheddafi hanno tutte le condizioni materiali favorevoli all’utilizzo della forza e dell’organizzazione militare, rispetto all’inesperienza e la confusione degli insorti. Nonostante questo iniziano a mostrare dei limiti. La mobilità offerta dalla via significa anche un’esposizione al logoramento quotidiano degli shebab. Ora che tutto ciò che c’era è stato distrutto e che il numero dei cecchini è ridotto della metà, la via costituisce un fronte limitato ed è piuttosto diventata un ostacolo per le forze lealiste. La distruzione dei dintorni disturba più la loro avanzata che quella dei ribelli e l’uso dei blindati e dell’artiglieria pesante diventa delicata nei vicoli che circondano la zona. Le forze di Gheddafi hanno tutto l’interesse a conservare una posizione di chiusura alle porte della città e a incrementare le offensive sulla zona del porto, come nei giorni precedenti.

Nei dintorni lo svolgimento dei combattimenti ha trasformato la zona in un groviera in cui ogni piccolo nascondiglio appartiene ad uno o all’altro schieramento. Sono talmente vicini che talvolta solo un edificio o addirittura un solo muro separano i combattenti. Alcuni cecchini, con il favore della notte o di un carro armato, cambiano posizione sulla via per proteggersi o per sorprendere e mettere in difficoltà gli shebab. Quest’ultimi valutano quindi i cambiamenti di posizione del nemico in base ai colpi che subiscono. Dopo aver distrutto o danneggiato tutti gli edifici strategici della via, i mercenari cercano di aggiustare il tiro cercando di intuire le basi e le differenti posizioni nemiche della zona.

La conoscenza del territorio ed il suo utilizzo da parte degli shebab mette in scacco la superiorità militare del nemico. L’architettura è sovvertita e messa al servizio degli spostamenti o delle offensive. I vecchi mercati coperti sono utilizzati per coprire gli spostamenti, infatti sono formati da un dedalo di corridoi – dove sono disposti allineati diversi negozi e accessi ai piani abitativi – collegati tra loro e che attraversano interi isolati. La disposizione forma una specie di labirinto all’interno del quale nessun nemico oserebbe avventurarsi. Il detournamento dello spazio genera nuove riconversioni. La vecchia distinzione tra interno ed esterno, luoghi pubblici o privati, non esiste più. Ogni edificio diventa un potenziale punto di controllo, protetto, su Tripoli Street.

Il box del vicino è diventato ormai il luogo dove si mangia insieme o dove si preparano il tè come le armi. In un altro, più nascosto, è stato allestito un piccolo ospedale di fortuna: tre letti, degli scaffali riempiti di medicinali di prima necessità. Le ambulanze permettono di portarci gli shebab feriti. La tromba delle scale diventa una camera dove dormire in una decina, quando non si fa la guardia nell’appartamento vicino. Le finestre e altre aperture originarie sono coperte o oscurate, mentre vengono aperti dei buchi nei muri per scrutare con il binocolo o infilare la canna delle armi. Vengono abbattute anche delle pareti per permettere la circolazione interna tra un’abitazione e l’altra.

Talvolta la sopravvivenza di un gruppo di shebab o la cattura di alcuni cecchini è stata più questione d’intuizione architettonica che di armamento: si è dovuto abbattere con le bombole del gas i primi piani di alcuni edifici, sia per proteggere le retrovie dalle incursioni notturne che per assediare una posizione nemica.

Nonostante i cecchini appostati sugli edifici, le forze di Gheddafi non hanno un controllo panoptico della zona. Le due fazioni sono costantemente in allerta, concentrate su ogni movimento; acquisire una posizione intelligente necessita un’attenzione costante. Bisogna scegliere rapidamente i passaggi allo scoperto: quali e per quanto tempo sono esposti. Come muoversi? Da che lato della strada avanzare, quale strada imboccare per restare coperti durante l’avvicinamento ad un edificio? Sapere quando è il caso di correre oppure di avanzare in punta di piedi, senza gesti bruschi, da soli o in gruppo.

Gli shebab, se inizialmente si limitavano ad incursioni nelle vie circostanti, ormai riescono a mettere in difficoltà le forze lealiste sulla stessa Tripoli street. In questi ultimi giorni, in più luoghi, è stato possibile piazzare di traverso sulla strada container o tir carichi di sabbia e rocce. I guidatori partono a tutta velocità da una via laterale e, all’ultimo momento, quando arrivano allo scoperto, saltano dal veicolo. Alcuni partono in imboscate nei dintorni, armati di molotov, fucili o RPG. Quando un tank si si avvicina ad una barricata per abbatterla, i panni e le coperte stesi al suolo ed imbevuti di benzina si incendiano sotto i cingoli. Bastano poi i molotov per dare fuoco al veicolo. I primi colpi di RPG sono diretti sugli assi dei cingoli, in modo da immobilizzarlo.


Nonostante l’organizzazione, la superiorità della potenza di fuoco e la capacità di reclutamento, l’armata di Gheddafi ha una grande debolezza. E’ composta da numerosi autoctoni fedeli a Gheddafi ma anche da mercenari stranieri, attirati dal guadagno, oppure da individui – a volte molto giovani – arruolati a forza. In realtà, dunque, è un’esagerazione parlare di “armata lealista”: una parte delle sue truppe non è fedele al potere né sente la guerra come sua. Questo è evidente nella loro scarsa capacità d’iniziativa, una volta privati del comando o nella remissione nei momenti più critici.

Invece, la maggior parte degli insorti combatte nel quartiere dove è cresciuta, a fianco di un fratello, un vicino o un amico d’infanzia. Anche se molti dicono di combattere per un’idea di “libertà” talvolta abbastanza vaga, il prezzo pagato durante i primi giorni della rivolta ha segnato per sempre la determinazione con cui molti si impegnano in questa guerra. Molti abitanti sono fuggiti dalle zone vicine a Tripoli street. Quelli rimasti non sono tutti armati né partecipano agli scontri, però la loro presenza è già un gesto contro il tentativo di occupazione del centro di Misurata. Ci si vive sia per combattere che per rifiutare la sconfitta, riconoscendo inabitabile il quartiere. Il “non negozieremo il sangue dei nostri martiri” ha più senso in bocca a qualunque abitante di Misurata che in quella del nuovo governo. La forza degli insorti, però, non può essere ridotta a un insieme di rapporti di amicizia o ad una fede.

Esiste un luogo a Misurata che serve da coordinamento tra le diverse zone di combattimento. Giorno e notte, in questo quartier generale, un accampamento fatto di container, vivono degli uomini. In uno di questi container è installata una cucina di base: ridendo ce ne parlano come di un ristorante. In un altro, su dei materassi sfondati, si beve del tè, si discutono le notizie, si guarda Al-Jazeera. La “sala delle operazioni” di notte viene trasformata in camera da letto. Al primo sguardo questo luogo è lontano dall’idea che si può avere di un centro militare.

Quello che viene indicato come il capo si presenta come lo “lo sceicco di una grande famiglia”, quella degli insorti. Sono l’età e l’esperienza a conferire a lui, come ad altri, un autorità quando si parla di strategia. A prima vista c’è una gerarchia a determinare i rapporti, ma l’amicizia sembra essere in grado di neutralizzare la passione per il potere.

La sera le discussioni sono continuamente interrotte dalle notizie in arrivo. Gli uomini ritornano dalle diverse zone di combattimento. Per ovviare all’assenza di mezzi di comunicazione vengono disposti dei regolari spostamenti tra i posti di combattimento e il quartier generale, in questo modo ci si tiene aggiornati, si pensano nuovi attacchi e si risponde ai bisogni. Viveri e armamenti non sono lasciati al caso: partendo da qui degli uomini si occupano di acquistarli, convogliarli e distribuirli nelle diverse zone.

Nella notte tra sabato e domenica è stata pianificata un’operazione coordinata per tagliare Tripoli street che ha permesso di isolare il Tamina building dalle sue retrovie e di rendere innocui due carri armati, un autobus e due macchine di mercenari venuti in appoggio. Questo martedì sera, si volevano neutralizzare gli ultimi cecchini imboscati nello stabile circondato. Sul tetto la bandiera della “Libia libera” ha già sostituito quella verde che ci sventolava da più di un mese.

Il famoso Tamina building

Misurata, il 12 aprile

Misurata: incontro con un fruttivendolo e un armaiolo
Misurata è una città la cui attività economica si basa essenzialmente sul commercio e l’industria. E’ una città abbastanza ricca, senza un ruolo politico particolare, rimasta molto attaccata alle tradizioni. Non interviene direttamente nello sfruttamento né nella vendita del petrolio. La forza di Misurata proviene dal suo complesso siderurgico (il più grande dell’Africa settentrionale) e dalla sua attività commerciale. E’ il più grande porto del paese. Un porto aperto su un mercato interno molto florido, sostenuto dai soldi del petrolio.

La città si è sollevata diversi giorni dopo Bengasi, in risposta alla repressione durante le manifestazioni. Mentre la città ha sempre approfittato delle elargizioni del regime nel suo sviluppo economico, hanno anche partecipato alla rivolta quelli che approfittavano ampiamente del sistema, come i commercianti che importavano per il conto di Gheddafi prodotti a buon mercato dal mondo intero, come i famosi pick-up cinesi della rivoluzione. Ormai, sono gli stessi commercianti che pagano gli spazzini, forniscono i telefoni satellitari e gli accessi a internet, più numerosi e più potenti di quelli di Bengasi.

Uno che verrebbe a Misurata avrebbe certamente l’impressione di assistere ad uno spettacolo familiare, per averlo già visto alla televisione o sui giornali: una città disarmata, assediata da un esercito potente, bombardata dall’artiglieria e paralizzata dai cecchini. Su questa scena, dove ogni elemento si trova al suo posto, la NATO non riesce a far tacere l’artiglieria. Altri attori, come i cecchini serbi, chiamati da Gheddafi, conservano gelosamente i loro posti. Quello che era Sniper alley a Sarajevo si chiama Tripoli street a Misurata. Il tunnel sotto l’aeroporto si estende ormai fino al mare e permette di trasportare da Malta o da Bengasi tutto il necessario, sotto lo sguardo complice della NATO. A Misurata come nell’est, la guerra non ha fine e si aspetta la caduta di Gheddafi, che pare ogni giorno meno probabile. A Misurata, si dorme male. Quello che riesce ad addormentarsi nelle case sovrappopolate di cugini o di amici, o nelle scuole allestite a dormitori in fretta e furia sarà probabilmente svegliato verso le tre del mattino dai colpi di mortai o carri armati, sparati a caso su l’intera città. Nei campi profughi la situazione è molto più drammatica. Quello che riesce ad addormentarsi con la pancia vuota sarà svegliato dal freddo o dalla pioggia. Certe notti le esplosioni e le sparatorie non cessano. Sul fronte dell’est, una tale situazione farebbe fuggire chiunque verso una zona più sicura. Però qui non ci sono zone più sicure. Quando un amico mi spiega che questi echi provengono da Tripoli street mi sento rassicurato.

Se in alcuni quartieri si mangia bene e si è al sicuro, è dovuto all’ingegnosità e al coraggio quotidiano dei Libici e degli stranieri. Ecco due esempi di questo spirito di Misurata. Gli ho scelti volontariamente tra i non-combattenti. Perché qui non ci sono “avanguardie” e “retroguardie”. I rischi, le sofferenze, il lavoro: tutto è condiviso.

L’esperto in armi
Il primo esempio è quello dell’esperto in armi. L’ho incontrato in una fabbrica di blindati. E’ un anziano, un po’ pazzo, ex-militare, che oggi fa il capo degli armaioli. Mi porta nella loro fabbrica di bombe. E’ una vecchia casa, costruita più di un secolo fa, rovinata qua e là, molto distante dalla città. Nessuno ci vive. Gli esplosivi sono spartiti il più possibile in varie stanze. All’inizio, dovevo visitare un’altra fabbrica, ma quest’ultima è ormai nella zona occupata dalle forze nemiche. In quella che sto visitando quattro uomini sono già morti a causa di esplosioni accidentali. L’anziano mi fa vedere le materie prime che usano: casse di dadi, munizioni di carri armati o di mortai. Nell’officina prende una lattina, aperta dall’alto, ci introduce tre dadi e poi spalma un esplosivo civile di fabbricazione turca. Chiude il dispositivo con un martello e ci introduce di forza una miccia con un detonatore civile. Ecco, in cinque minuti, una granata pronta all’uso.

Prende poi una grossa bombola d’ossigeno, e mi spiega che una volta riempita di bulloni e di esplosivi, ci si può mettere un detonatore elettrico e farne una mina efficacia. Davanti al suo lavoro mi confida con orgoglio che sulla sua testa è stata messa una taglia e che se voglio diventare ricco, basta ammazzarlo o consegnarlo a Gheddafi. Poi andiamo in un posto isolato in mezzo alle dune. Là, ancora più distanti dalla città, sono ammucchiate diverse munizioni: bombe di mortai non esplose, esplosivi di marina, granate ancora intatte. Dicono che la maggior parte è sotterrata. La gente della città va lì per deporre le munizioni che non servono o le cose che credono di essere tali (filtri dell’aria di carri armati o cartucce di ricarica). Diverse munizioni sono state aperte per estrarne l’esplosivo, ma la maggior parte è ancora intatta. Torniamo poi con l’esperto alla fabbrica, dove il suo saper-fare risulta molto utile.

armurier frabriquant des grenades
Armaiolo fabbricando delle granate

Il fruttivendolo egiziano
Il secondo esempio è un fruttivendolo egiziano: il commerciante, il piccolo-borghese per eccellenza, dedicato a una vita di lavoro e di stabilità. Ogni giorno verso le 6 del mattino, prende il suo furgone e si parte velocemente verso i campi, sfidando i colpi dei cecchini. Trenta minuti dopo arriva alla fattoria di un tizio che conosce. Il terreno non viene più annaffiato e la maggior parte delle verdure sono secche o rimpicciolite, però si trova sempre qualcosa con cui caricare il furgone. Comunque non si attarda molto, il lavoro deve essere concluso entro un’ora. Oggi ci sono delle carote e delle melanzane. I due centri importanti di questa raccolta ad alto rischio sono Dafnia a ovest – in direzione di Zlitan – e Taumina a est – in direzione di Tawarga. Da queste due località Taumina è la più pericolosa, però sia nell’una che nell’altra direzione, le forze di Gheddafi possono sparare sul veicolo o fermarlo. Questo è già successo più di una volta al nostro eroico fruttivendolo, perché le forze lealiste non tengono nessun posto di blocco permanente sulla strada. Da diverse settimane hanno abbandonato i veicoli militari e li hanno rimpiazzati con dei veicoli civili simili a quelli degli insorti. Tirando a sorte contro una macchina a caso, sbarrano la strada all’improvviso.

Fino ad ora il commerciante ce l’ha fatta fingendo di andare a consegnare i prodotti alle milizie di Gheddafi, però si può immaginare la tensione che proverà durante questi controlli in cui ogni errore può essere letale. Queste preziose verdure le vende al prezzo ordinario a quelli che se lo possono permettere, e le regala a quelli che non possono pagare. Solo i prezzi delle patate, dei pomodori e delle cipolle sono fortemente aumentati. Queste verdure vengono portate da Tripoli da venditori che dovrebbero normalmente consegnarle a Zlitan. Vengono comprati ad un prezzo più alto del normale e quindi venduti più cari. Il chilo di patate è passato da 75 centesimi a 1,25 dinari.

L’arrivo di verdure è meno abbondante del solito ma i negozi ancora aperti vengono approvvigionati bene, e non c’è la coda davanti. Il fruttivendolo consegna anche i suoi prodotti nelle case di Tripoli street, per quelli che non possono uscire dalle loro abitazioni.

magasin du primeur guerrier
Negozio del fruttivendolo guerriero

Poco tempo dopo incontro in una clinica un ragazzo ferito da un cecchino in una fattoria durante una raccolta a Sict, vicino Taumina. La pallottola ha penetrato il suo petto a sinistra, sotto il braccio, a pochi centimetri dal cuore.

Questi erano due esempi notevoli di ciò che significa vivere a Misurata. Avrei potuto parlare dei medici che si occupano dei feriti, a due passi dalle zone in cui si combatte; dei tecnici che ogni giorno vanno nelle zone pericolose per riparare le linee dell’alta tensione danneggiate dai bombardamenti; o di un esperto in comunicazione che tenta di ristabilire la rete su Tripoli street. Tutti questi esempi sono presi a caso dentro una popolazione impegnata corpo e anima in questa guerra.

Misurata non è solo garante dell’unità della Libia, è anche un attore essenziale della sua costruzione. Se Bengasi è l’avvenire intellettuale del paese, Misurata è il suo avvenire economico. La sua distruzione rimetterebbe in discussione lo sviluppo di tutta la Libia così come la sua indipendenza commerciale. Ciò che si può temere oggi non è tanto la sua caduta, poco probabile vista la densità e la determinazione della sua popolazione, ma la sua lenta e irrimediabile distruzione, come nel caso di Sarajevo, una volta così importante e ormai respinta al secondo piano.

Bengasi si sveglia, il nostro popolo muore
Questa  guerra sembra una opera teatrale che va in scena ogni giorno, instancabilmente. Cambia solo la scena, da Brega a Ben Jawad, da Ben Jawad a Brega, ogni volta un po’ più rovinata.

Lo stato provvisorio si rivolge ormai solo ai branchi di giornalisti che, non sapendo esattamente cosa fare delle loro giornate, si occupano agglutinandosi, da conferenza stampa in conferenza stampa. Tutto sembra normale. Si vorrebbe che tutto sia come prima, eppure è tutto diverso.

Il centro di Bengasi conta ancora tanti uffici del nuovo stato. Organizzazioni di gioviani o di lavoratori, sempre più bulimici di simboli, di bandiere, di uffici-col-nome-sulla-porta. Ma le guardie armate, così pallosi e fieri fino a ieri, si fanno sempre più rari, stufi di rappresentarsi davanti agli occidentali navigati.

Il vero Stato della nuova Libia non è, e non è mai stato, il Comitato Nazionale di Transizione. Sembra d’altronde che la sua unica attività extra-mediatica sia stata quella di recuperare i soldi del petrolio per riempire chi sa che cassa. Costituisce senza dubbio  solo il pretesto di un mezzo di stampa che costruisce alla rinfusa il patetico, le immagine, il discorso e il ritmo di questo spettacolo che è l’etica rivoluzionaria in Libia.

Se esiste qualcosa come uno “Stato”, si situa piuttosto negli uffici di Al Jazeera. Se uno vuole delle notizie della guerra o vuole sapere cos’è l’ultimo corteo, bisogna accendere la televisione.

Qui nessuno obbedisce a nessuno. Certo gli sbirri ricompaiono ma la metà sono dei ragazzini o dei tipi che hanno recuperato delle divise. Non si organizzano insieme né sotto la tutela del CNT.

La presenza di un esercito organizzato è la voce che gira di più (senza contare quella che annuncia il sollevamento di Sirte, voce tanto mitica quanto ricorrente).

Il fronte è d’altronde ridiventato un “privé” con selezione all’ingresso. In questa battaglia che non finisce più da Brega a Ben Jawad, non c’è niente di interessante da fare per chi non fa parte di una squadra di artiglieria, o non vuole morire da martire. La guerra si specializza ma non si può dire che ci sono “specialisti” nel campo degli insorti. I “militari professionisti”, organizzati e furtivi, più o meno comandati da un panorama di generali e colonnelli, e che molti giornalisti pretendono aver visto, stanno diventando uno scherzo sempre meno divertente. Ci sono dei militari addestrati e equipaggiati sul fronte, ma sono i soldati di Gheddafi e colpiscono gli shebab. A dire il vero, questo fantasma che sembra uscito da un video cheap per il reclutamento dei marines serve sopratutto a bloccare i giornalisti all’ultimo check-point, ma non funziona. E’ molto facile oltrepassarlo, e tutti lo fanno.

In un articolo precedente descrivevamo la costituzione di un’“avanguardia” e una “retroguardia”: bisogna capire questo al livello della forma di vita. Sono tutti civili e ciò che differenzia quelli che vanno sul fronte dagli altri è un certo interesse per i combattimenti e, di conseguenza, un rapporto abbastanza demistificato allo scontro bruto. Ci sono ovviamente alcune persone che dopo esser stati sul fronte una volta tornano in città per tirarsela, ma questi atteggiamenti sono piuttosto rari.

La questione tribale  si pone o si porrà solo nelle città di Sebha e di Sirte. Per quanto ne sappiamo, da qualsiasi altra parte, è come qui: gli insorti sono degli individui che si radunano sul fronte. Si organizzano in gruppi di tre o quattro veicoli al massimo e si occupano loro stessi della propria logistica. Vengono aiutati da tipi che si organizzano da soli per riempire i pick-up di cibo e e di acqua per portarli in prima linea. Si parte sul fronte insieme perché si è amici sul lavoro, o della stessa famiglia o dello stesso circolo subacquei però non c’è niente che assomigli ad una composizione “tribale”, come non c’è nessuna distinzione formale tra militari e civili. Nelle strade di Bengasi, è impossibile distinguere i “combattenti” del resto della popolazione.

I capi in erba e la curiosità dei cittadini di Bengasi hanno abbandonato il fronte alle poche persone che credevano abbastanza in ciò che facevano.

I ruoli si dissolvono e i rapporti tra le persone diventano rapporti realmente compartecipativi Anche i fotografi venuti a giocare in questo film di guerra si trovano coinvolti e condividono fortemente l’esperienza con gli shebab. Il rapporto con gli occidentali sul fronte è diventato molto chiaro. Da un lato gli shebab considerano quasi come compagni quelli che mangiano con loro, viaggiano con loro sulle macchine che vanno verso il fronte, etc. Da un altro lato possono essere molto freddi nei confronti di quelli che sembrano di essere solo curiosi, inviati qui come potrebbero essere inviati alla prima della Scala.

Come durante l’occupazione di Ras Lanuf, la guerra è sempre di più vissuta come lo stato normale delle cose. L’esercito non è mai stato così piccolo, ma è organizzato bene. L’artiglieria si colloca sulle creste, il ricaricamento si fa velocemente e tutti lo sanno fare ed appaiono delle nuove armi.

Anche l’artiglieria pesante si costruisce con mezzi di fortuna: lanciarazzi grad azionati da interruttori per le case, mortai fatti con dei tubi recuperati e, ciliegina sulla torta, lanciarazzi di elicotteri Mi-24 montati su dei pick-up e capaci di lanciare una trentina di razzi di 57 mm in un lampo grazie a un controllo di tiro improvvisato.

La solidarietà internazionale non si vede sul fronte. Ci sono solo le macchine degli abitanti di Bengasi, Brega o Tobruk che portano delle cose che hanno comprato con i loro propri soldi.

Anche a Bengasi la normalità puzza di zolfo. Tutti i negozi sono aperti tranne le banche, nonostante la loro grande importanza simbolica. Il venditore di cuoio che una settimana fa vendeva ancora delle cinture e riparava le scarpe dei bambini, vende ormai in un pomeriggio cinque o sei fondine, tre o quattro bretelle per kalashnikov, un giubbotto antiproiettile e… una cintura rosa per fighetti.

Due giorni fa ho incontrato dei giovani del fronte di Agedabia. Mi  hanno portato fino a un carro armato sul quale, con due tamburini, ballano e improvvisano dei canti che si rispondono, ripresi da alcuni, criticati da altri, interrotti e poi ripresi… Ogni sera, tali gruppi si formano con delle persone e delle danze diverse.

Oggi una nave turca che portava aiuti alimentari è stata respinta dopo quindici minuti passati sul molo. I Libici insistono sul fatto che non hanno bisogno di cibo ma di armi e di sostegno militare. Sempre più persone dicono chiaramente che se la coalizione non bombarda le truppe di Gheddafi, è perché l’ha scelto. Dal momento in cui ha distrutto chirurgicamente tutti i veicoli lealisti da Bengasi a Brega, e visto la precisione con la quale i carri armati sono stati decapitati delle loro torrette, si può effettivamente pensare che la coalizione ha deciso intenzionalmente di fermarsi a questo punto.

Notizie da Misurata sotto assedio

Siamo a Misurata da due giorni. Scriviamo dall’unico internet point della città, organizzato con mezzi di fortuna. A parte una persona di Al Jazeera, sempre presente, una sola troupe della CNN ha passato due giorni sul posto, sicuramente perché non è facile accedere alla città e perché la situazione è pericolosa. Tuttavia, secondo quanto ci hanno detto, la presenza di alcuni giornalisti in città ha talvolta spinto i sostenitori di Gheddafi a tenere a freno i bombardamenti.

Disposizione delle Forze
Qui si combatte da cinque settimane. La maggior parte delle forze sono disposte ad una ventina di chilometri intorno alla città, al di là delle porte: ad ovest nella città di Zlitan e a sud nelle città di Tamina e Jioda. Da queste posizioni le truppe lealiste controllano tutti gli accessi via terra di Misurata, tutta la città è a portata dei tiri della loro artiglieria pesante. Per ora il mare costituisce l’unica via d’accesso alla città assediata: il porto di Quasr Hamad è in mano agli shebab, mentre le coste sono più o meno sorvegliate dalle forze della coalizione. Qui, nella notte tra il 28 e il 29 marzo, le forze di Gheddafi hanno tentato un’incursione via acqua con una decina di chiatte appoggiate da tre imbarcazioni abitualmente utilizzate per la gestione dell’immigrazione clandestina e riconvertite per l’occasione, perché la flotta di Gheddafi è stata annullata dalla NATO. Il centinaio di uomini che, senza il sostegno dei bombardamenti, contava evidentemente sull’effetto sorpresa, è stato respinto al largo dai tiri di RPG e di cannoni antiaerei degli insorti. Il giorno dopo, l’artiglieria delle forze lealiste ha bombardato il quartiere portuale per sei ore: gli abitanti sono riusciti a fuggire dopo le prime scariche, una decina di abitazioni sono state colpite.

Le forze di Gheddafi tengono anche la via principale di Misurata, Tripoli street: un asse che divide in due la parte nord della città. La conquista di questo viale, circa due settimane fa, è avvenuta attraverso l’incursione di settecento uomini e una quarantina di mezzi blindati. Gli abitanti si sono difesi con i mezzi a loro disposizione, che non sono molti: pietre, alcune armi leggere e molte bottiglie molotov. La città non è caduta, ma la presa di questo asse di comunicazione è una vittoria strategica: equivale alla piazza centrale di Bengasi. Qui convergevano le grosse marce e manifestazioni; questa nuova disposizione delle forze lealiste impedisce effettivamente ogni assembramento, organizzazione e visibilità dell’opposizione. Ormai i carri armati sono posizionati per lo più nei dintorni di uno dei grandi supermercati della città, che potrebbe ancora fornire cibo, e in prossimità del vecchio ospedale Bushahal, parzialmente distrutto ma che contiene ancora materiali e medicamenti. Un centinaio di cecchini sono ripartiti su tutta la lunghezza della via e sui numerosi edifici a strapiombo su tutta l’area, di modo da coprire sia la loro posizione che quella dei blindati.

Oltre al vantaggio della posizione sui tetti, i cecchini sono armati di fucili a lunga gittata, dispongono di mirini potenti, alcuni ad infrarossi. La precisione dei colpi che colpiscono quasi esclusivamente alla testa, alla nuca o all’addome i passanti scelti ed abbattuti a caso in zona durante queste due settimane, non lasciano dubbi sulla loro professionalità. Quelli catturati sono arrivati alla rinfusa dall’Italia, Colombia, Grecia o Serbia nelle ultime settimane. Il salario quotidiano arriva fino a 9000 dinari. Alcuni dicono di essere “del mestiere” da più di quindici anni. Settimana scorsa 150 persone sono state abbattute su Tripoli street. La popolazione civile evita rigorosamente quest’arteria. Le donne, i vecchi ed i bambini dei dintorni si sono trincerati in quartieri con strutture più tortuose, più facili da difendere.

Il centro della città è all’incrocio tra Tripoli street e Bengasi street. Da questo crocevia fino alla porta di Misurata i due schieramenti si ripartiscono su una decina di chilometri, attraversati da cinque cinture che circondano il cuore della città. Ogni intersezione su Tripoli street è un punto strategico, dal momento in cui ogni cintura dà la possibilità  ai blindati di sfondare ed entrare nei quartieri adiacenti. L’abbiamo attraversato per avvicinarci al cuore della prima corona, al limite dell’intersezione tra Tripoli street e Bengasi street. L’odore di bruciato inonda il centro. Il tragitto in automobile attraverso vie devastate, le facciate bombardate, si compie a grande velocità, prendendo le rotonde in contromano, zigzagando tra barricate di fortuna, macchine e carri armati carbonizzati. Una volta usciti da questi grandi assi, troviamo quartieri più o meno vuoti, con vie strette e labirintiche. Lì la guerra assume forma di guerriglia urbana. Alcuni uomini, di tutte le età, rimangono là a piazzare. Gli shebab sono riuniti in diversi punti di questa zona. Per circolare a piedi, senza essere scoperti, sono stati aperti dei passaggi attraverso i muri dei giardini e delle case. Le due parti sono a portata di tiro e si incalzano in continuazione, delle volte solo una decina di metri, in un vicolo, separano le due posizioni, cosa che rende impossibile i bombardamenti. Gli edifici in cui sono appostati i cecchini sono conosciuti, ma questi sono appostati all’interno e beccarli con precisione è difficile, però gli edifici sono a volte abbastanza distanti e la loro immobilità li rende fragili. Mantenere una posizione per il tempo necessario – ad esempio per tagliare gli approvvigionamenti dei cecchini – è impossibile. L’unica tattica veramente efficace contro i cecchini, per ora, sembra essere stata l’azione di qualche shebab kamikaze: si sono aperti il passaggio fino ad un edificio facendo esplodere i primi piani a colpi di bombole di gas. I cecchini, sprovvisti delle loro forze a terra, sono stati costretti a scendere e catturati dagli shebab. Visto la determinazione della popolazione, la vittoria qui è innanzitutto questione di tempo o semplicemente di armi più efficaci.

Qui, ancora più che altrove, pare che ci siano poche armi nelle mani degli shebab: quelli che abbiamo raggiunto avevano qualche cannoni antiaerei sui pick-up, uno o due RPG e qualche kalashnikov, degli FN, dei 22 long rifle e delle bottiglie molotov, coltelli, temperini. Questo si spiega prima di tutto per la situazione di assedio nella quale si rapidamente trovata la città. Inoltre a Misurata non c’è stato né l’assalto né il saccheggio della Katiba che, altrove, ha fornito ai ribelli praticamente tutte le armi e munizioni. Qui una parte delle forze militari ha raggiunto gli insorti mentre l’altra conservava il controllo della caserma, rimanendo fedele a Gheddafi. Oggi abbiamo visto uno stock di munizioni recuperate durante un’avanzata dei ribelli. Gli shebab che ce le hanno mostrate non conoscevano l’esistenza di una parte di queste munizioni e comunque non avevano armi per utilizzarle. Sembravano nuove e recentemente impacchettate, di provenienza russa e israeliana.

Ci assicurano che il 99% della popolazione di Misurata è contro Gheddafi mentre il resto sono dei “deboli” che si sono uniti alle forze lealiste per soldi. In ogni caso, i mercenari sembrano numerosi. Alcuni sarebbero arrivati di recente da Sirte per rafforzare gli effettivi di Gheddafi. Sappiamo che arrivano anche dal Ciad e dal Mali. Ci sono parecchie voci che girano su questi mercenari. Molti parlano dei loro salari. Ad esempio, per la presa di Tripoli street ognuno avrebbe ricevuto 300,000 dinari, avendo come semplice consegna la “pulizia” di Misurata. I piccoli pacchetti contenenti vodka, viagra e preservativi, trovati su alcuni mercenari in ospedale, sembrano una cosa corrente. La trentina di mercenari che ieri ha fatto un’incursione in un quartiere adiacente alla via principale – che unisce Misurata a Tripoli e a Bengasi – non parlava arabo.

Viene applicata la frase di Gheddafi all’inizio del conflitto “zenga zenga dar dar” (“via per via, stanza per stanza”): perquisizione delle case, esecuzione sommaria di sette persone senza particolari distinzioni, furto di denaro, oggetti di valore e delle auto di quartiere per trasportare i corpi, pratica corrente dall’inizio della guerra che rende difficile la conta delle vittime. Oltre a non lasciare tracce, le truppe lealiste talvolta usano i cadaveri per mettere in scena alla televisione nazionale dei supposti massacri da parte degli insorti o della NATO.

Quotidianità a Misurata
Tutte le vie che partono dal centro sono sbarrate da check-point improvvisati. Di conseguenza, la marcia dei veicoli avviene tra montagnette di sabbia in cui sono state impiantate delle molotov e numerosi pneumatici, materassi, coperte per terra, imbevuti di benzina, pronti per essere incendiati.
Molti profughi vivono in campi situati nella zona industriale del porto la quale, dall’inizio della guerra, ha interrotto ogni attività. Qui, lungo due chilometri, circa 3000 egiziani e 800 africani si ammassano in tende fornite dalla Mezzaluna Rossa. Arrivano dal centro di Misurata, sono quelli che non hanno potuto fuggire al momento delle prime evacuazioni degli stranieri. L’impossibilità di comunicazioni con il loro paese, il fatto che siano in molti ad essere entrati illegalmente in Libia e la difficoltà di circolazione per mare e per terra rende quasi impossibile il ritorno nel loro paese.

La comunicazione a Misurata è un serio problema, la rete internet è molto limitata e tutte le linee telefoniche sono tagliate. Sembrano esserci poche alternative al rischio della vita trasmettendo un messaggio correndo da un luogo all’altro. Ad ogni nuovo bombardamento o incursione, dai minareti rimbalza di quartiere in quartiere “Allah Akbar”: un modo per allertarsi ma anche di farsi coraggio. Televisione e radio sono altri due metodi per avere delle informazioni. Per quanto riguarda la televisione ci sono due punti di vista, divenuti risorse essenziali all’interno di questa guerra. Il primo è quello del canale nazionale, dove, ad ogni telegiornale, ci sono rappresentazioni menzognere.

Ancora ieri una cinquantina di filo-Gheddafi venuti da Tripoli gioivano a Tripoli street per mimare la riconquista della città. L’immagine però veniva tagliata ogni volta che si vedeva che erano esclusivamente alle porte della città. Le forze lealiste hanno inoltre compiuto dei rapimenti notturni seguendo una lista nera. Hanno portato degli uomini a Tripoli, li hanno pestati e, davanti alle telecamere, gli hanno fatto invocare il ritorno all’ordine gheddafista. Lavorano anche alla costruzione della figura del nemico, filmando essenzialmente uomini barbuti per accollare l’immagine minacciosa di Al-Qaida agli shebab. Contrariamente, Al-Jazeera e Al-Arabiya diffondono le immagini dei ribelli, informano sulla loro avanzata, della presa di prigionieri e mostrano la loro determinazione. Hanno anche diffuso la testimonianza di una donna di Bengasi che è stata violentata dai mercenari e che avrebbe dovuto falsificare i fatti davanti alle telecamere nazionali e occidentali. Ma è comunque riuscita a raccontare ciò che ha subito. I giornalisti dei quotidiani locali sono sempre sul posto ma non hanno più stamperie dove stampare i giornali. Per quanto riguarda la radio a Misurata, una frequenza diffonde programmi sulla situazione generale della Libia. Un’altra frequenza si occupa per lo più dei bisogni della popolazione e delle posizioni delle forze lealiste. Ecco uno dei loro comunicati:

“Avvertimento ai mercenari:
Siamo i ribelli del 17 febbraio, combattenti per la rivoluzione per liberare la Libia e liquidare il regime di Gheddafi. Chiamiamo i mercenari, che sono stati pagati per uccidere il popolo libico, a deporre le armi o ad andarsene per salvare le proprie anime e fermare il bagno di sangue. Se non lo farete, non potrete che prendervela con voi stessi. Il popolo libico non vi dimenticherà e morirete o sarete fatti prigionieri. “

Metà della città non ha né acqua né elettricità, per lo più il centro. L’acqua veniva attinta direttamente dalle falde freatiche, e dunque il circuito necessita di essere alimentato elettricamente. La popolazione fa delle collette per comprare dei camion d’acqua da una fabbrica vicina in modo da rifornire le zone escluse. Un carico d’acqua costa 35 dinari a camion.

L’ospedale principale di Misurata, Bushalal, è stato il bersaglio principale, per due riprese, dei bombardamenti. Dopo questi attacchi il sistema medico della città ha dovuto essere riorganizzato in luoghi diversi: alcuni depositi per i medicamenti, due piccoli ospedali della Mezzaluna Rossa, una clinica privata e due ambulatori che sono stati requisiti e trasformati, nel limite del possibile, in ospedali. Abbiamo potuto visitare due di questi luoghi. Prima della rivoluzione il sistema sanitario era già precario e dipendeva per lo più da Tunisia ed Egitto. Le informazioni che seguono saranno vaghe  poiché le forze lealiste usano tutte le informazioni disponibile per rendere più precisi i loro attacchi. I loro bersagli sono sia  case che luoghi che rendano possibile l’organizzazione collettiva materiale e spirituale: ospedali, scuole, moschee,…

In generale mancano personale, posti per i feriti e mezzi (medicamenti, materiale medico, dottori specializzati soprattutto in fratture del cranio e del viso). A dispetto delle promesse della comunità internazionale, la popolazione locale deve organizzarsi esclusivamente in base alle proprie forze. In una delle ciniche improvvisate lavorano dodici medici e quattro infermiere. Non sono tutti professionisti, alcuni sono ancora studenti. L’insieme del personale è di Misurata o dintorni ed è in servizio praticamente 24 ore su 24. Si occupano sia delle cure ai feriti che della preparazione funebre ai morti, o del cibo e dei vestiti necessari. In questa clinica sono disponibili solo venti letti: ogni corridoio, ogni angolo viene quindi occupato. La mancanza di posti e l’esposizione ai bombardamenti delle forze lealiste portano il personale medico a tenere ricoverati solo i feriti molto gravi e chi è arrivato il giorno stesso. Questo aumenta la necessità da parte del personale medico di spostarsi con veicoli civili.

Dall’inizio della rivoluzione, questa piccola clinica a visto passare 1200 feriti, secondo i medici. Se non sono ferite d’arma da fuoco, sono ferite dovute alle  granate che, esplodendo, provocano fratture al viso, al corpo, amputano membra e accecano. Le donne, anch’esse esposte agli attacchi delle forze lealiste, sono vittime per lo più delle granate d’artiglieria, dal momento in cui rimangono principalmente negli edifici.

Pure le ambulanze della clinica vengono attaccate, anche quando vanno alla ricerca di morti e feriti. A Tripoli street i morti vengono abbandonati in giro perché le ambulanze non possono accedervi. Le ambulanze vengono anche utilizzate dalle forze di Gheddafi per girare nella città sparando sulla popolazione: per questo la clinica usa esclusivamente veicoli della Mezzaluna Rossa per distinguersi dagli altri e non essere confusa con il nemico. Questa clinica non riesce a comunicare con gli altri due centri medici ma almeno le tre ambulanze di cui dispone riescono a farlo tra di loro.

Per quanto riguarda il cibo, ci dicono che le cipolle sono diventate più care dell’oro. Le derrate alimentari sono molto scarse e questo ha prodotto un’importante inflazione: un mezzo dinaro ne vale ormai cinque. Nonostante questo non sembra ci sia uno sviluppo del mercato nero. Tutte le famiglie e gli immigrati possono trovare del cibo gratuitamente, recandosi a dei punti di stoccaggio nella città, dedicati a generi di prima necessità. Un altro nutrimento molto usato è il pane, cucinato da loro stessi. Nella clinica la cucina, molto piccola, non permette di preparare dei pasti per tutti: i feriti vengono per lo più nutriti con panini confezionati da alcune famiglie.

Non ci sono illusioni sulle promesse della comunità internazionale. La no fly zone non ha grande significato per la popolazione di Misurata. Tuttavia affermano che in questa guerra asimmetrica l’appoggio delle forze militari straniere è necessario.

Dal nostro arrivo in Libia e ancora di più da quando siamo a Misurata, abbiamo visto pochissima paura. Ogni volta che ci spostiamo in luoghi più esposti oppure durante i bombardamenti, “Allah akbar” risuona come un grido di guerra. L’Islam crea accomuna. La preghiera, i canti, la fraternità appaiono più forti del solito. Nelle case, conoscenti, vicini e amici si incontrano per scambiarsi le notizie della giornata.

Le donne sono poco visibili in questa guerra. Le uniche che pare vi prendano parte attivamente sono le infermiere. Per le altre, l’orgoglio di offrire vestiti puliti, di fare e rifare implacabilmente letti e pasti per coloro che hanno perso casa, appare in questa guerra come sfregio alla miseria che una situazione come questa potrebbe portare. Anche di fronte alla morte, è in gioco l’onore.

Le bande di shebab, che stanno dove c’è guerriglia urbana, vivono in ripari organizzati nelle case, dormono, mangiano e combattono insieme, tutti i giorni. Sono diventati fratelli. Quando abbiamo lasciato i nostri compagni di viaggio ci hanno assicurato che volevano rimanere o morire qui.


I bombardamenti della coalizione, il fronte, le macchine.

Alle porte di Bengasi si trovano i primi mezzi colpiti dalla coalizione: mezzi anfibi, lanciarazzi e porta-radar. A una decina di chilometri da lì c’è un vero cimitero militare. La zona si estende per diversi ettari, in tutto più di trenta veicoli distrutti, tra cui una decina di carri armati (enormi tank italiani in alluminio e T-72), vetture e camion. Un solo colpo ha mancato il suo obiettivo e ha provocato un buco nel terreno. Penso che il nuovo stato libico avrà bisogno di nuovi armamenti e si può indovinare facilmente chi rimpiazzerà i carri fuoriuso con dei nuovi di zecca… Sulla strada, nel deserto, si trovano altri blindati distrutti qua e là, a volte solo un frammento, una lamiera o un motore, quello che resta di un carro di 40 tonnellate.

La linea del fronte è a circa dieci chilometri dalla città di Agedabia, le truppe sono numerose, varie, piene di gente venuta all’avventura, e armate niente male. Ricorda molto la presa di Ras Lanuf, salvo che qui gli insorti sono per ora tenuti in scacco. Ai colpi sparati a casaccio dagli insorti rispondono pochi colpi d’artiglieria ma precisi che impressionano molto i nuovi combattenti. Poi una bomba di eccezionale grandezza sganciata da un aereo (francese o inglese) fa tacere l’artiglieria lealista a Agedabia. Una colonna di mezzi parte al volo per prendere possesso delle postazioni. Venti minuti dopo, il raid sembra finito male: la colonna è di ritorno. Tornata a uno o due chilometri dal suo punto di partenza, viene schiacciata da bombe incendiarie, atto inutile e crudele. Due minuti dopo, un’altra scarica d’artiglieria getta nel panico gli insorti. Fino a sera, si vedono passare le ambulanze che riportano a Bengasi i combattenti messi male. E lo spettacolo pirotecnico delle bombe sganciate dagli aerei della coalizione continua per tutta la notte.

Ecco un aneddoto curioso che mi è capitato a Zuetina. Un pick-up col cassone pieno di sangue si fa prendere a calci da due tipi circondati dalla folla. Nel giro di qualche minuto, un anziano dice loro di smetterla, che bisognerà ancora usare il veicolo, e lo sistema un po’. I due tipi lo scassano ancora un po’ e poi salgono a bordo, fanno mezzo giro sbattendo contro tutte le altre macchine che incrociano e partono a razzo verso il fronte. Mi spiegano dopo che dentro questo pick-up un uomo è morto.

Questo non è il primo caso in cui mi capita di vedere una macchina che viene colpita, a prima vista « senza senso ». Oltre a una granata lanciata in un veicolo abbandonato a Ras Lanuf, ho potuto vedere che tutte le auto, anche solo vagamente dannegiate, che sono state lasciate indietro dai nemici alle porte di Bengasi, sono state bruciate l’indomani. Ho l’impressione che questa guerra abbia scatenato uno strano odio contro le macchine, come durante una rivolta di strada, ma in modo ancora più confuso. Qui per fare le barricate per proteggere l’accesso a Bengasi, gli insorti evitavano d’usare il materiale in giro, per rispetto della proprietà privata, ma le auto (prese agli sbirri, all’esercito, donate da chi non poteva combattere o quelle dei combattenti stessi), quelle non sono mai risparmiate, anzi…

Bengasi, il 21 marzo.

Geddhafi attacca Bengasi.
Ieri sera, i giovani si ammassavano davanti al campo di addestramento e chiedevano armi e munizioni, che adesso mancano terribilmente agli insorti. La linea del fronte era ancora a 50 chilometri da Bengasi. Gli insorti sono stati bersagliati da un katiuscia e poi dalle mitragliatrici leggere. Probabilmente coloro che attaccavano disponevano di sistemi di visione infrarossi o persino termici. Nei quartieri a sud di Bengasi gli abitanti montavano delle barricate di fortuna e preparavano centinaia di molotov. Tutta la notte le moschee ripetevano a nastro che Allah è grande e l’unico.

Stamattina verso le 6 abbiamo sentito numerosi bombardamenti a sud. Le strade erano totalmente deserte. Un aereo di Gheddafi ha sganciato delle bombe nelle vicinanze dell’università e del campo di addestramento. I lealisti hanno preso possesso dell’università dove hanno appostato numerosi cecchini. La zona d’esclusione non è rispettata da nessuno, però questo sembra girare a favore delle forze di Gheddafi. Quest’ ultime non sembrano comunque voler ancora addentrarsi nella città, sennò sarebbero già qui con i loro carri armati. Sono per ora concentrate a sud, e potrebbero muoversi verso nord per circondare la città. Sono in questo momento a due chilometri dalla mia posizione attuale e potrebbero troncare ogni comunicazione a breve.

Il morale degli abitanti è minato. Molti cedono al disfattismo e si rassegnano di morire. Altri si gettano in una guerra urbana che promette di essere una strage. E’ probabile che la città sia circondata o persino presa nei prossimi giorni.

Aggiornamento: stamattina ci sono stati 25 morti tra gli insorti e almeno 13 feriti. Sono stati colpiti dalle bombe all’università a sud e a Tabalino a est, e dai cecchini a Al Fuwaia. I lealisti hanno tentato un accerchiamento passando attraverso Tabalino, un quartiere di palazzoni in periferia, ma hanno perso 4 vecchi carri armati e almeno 2 uomini. Hanno a disposizione almeno altri 5 carri armati nuovi fiammanti.

Aggiornamento 2: A sud di Bengasi il terreno è senza ostacoli, l’università è abbastanza distante dalle abitazioni più vicine ed è dunque la postazione perfetta per l’utilizzo combinato di cecchini e artiglieria di Gheddafi. Quando i lealisti hanno cercato di circondare la città da est sono entrati nelle zone urbane. Nonostante il loro equipaggiamento superiore, hanno subito una sconfitta. Cercheranno dunque probabilmente di aggirare l’ostacolo passando più a est, in terreno più agile. Per il momento, il fatto che la gente si sia tenuta le armi a casa si è rivelata piuttosto positiva in un tale frangente. I capifamiglia escono con le loro proprie armi per strada. Se dispongono per davvero di ottiche adattate, i lealisti potrebbero passare in vantaggio nei combattimenti notturni, anche in piena città.

Bengasi, il 19 marzo.

Precisioni dalla Libia.
Capiamo come possa essere complicato, dall’Europa, immaginarsi com’è la situazione qui in Libia. E’ difficile immaginarsi questi giovani inesperti gettarsi, disarmati, all’assalto di una strada bombardata dall’artiglieria. O capire che avere una discussione “politica” possa significare discutere tranquillamente della realtà del “complotto giudeo-massonico” con uno studente istruito e curioso. La rivoluzione libica non è per forza ciò che si crede.
In una settimana di repressione il regime di Gheddafi si è reso insopportabile a un popolo poco abituato alle rivolte (la Libia non è la Grecia né la Cabilia). In questo articolo tenteremo di fare il punto, a un mese dall’inizio della rivolta, su cos’è la Libia “liberata”. Proveremo a condividere meglio ciò che ci vediamo e viviamo.

Rifornimento.
Per quanto riguarda il cibo, l’acqua, l’elettricità e la benzina, la situazione rimane molto stabile. Il cibo si acquisisce di solito come prima della rivolta, nei negozi riforniti dall’Egitto. I salari non sono più pagati però i risparmi personali rilasciati a contagocce dalle banche sono sufficienti. Prevenendo una pauperizzazione crescente e un arresto del sistema mercantile, i paesi del Golfo, Qatar e Emirati Arabi, insieme alla popolazione egiziana, hanno fatto passare dal confine cibo e prodotti per l’igiene, immagazzinati nelle città della Cirenaica. Dal 17 febbraio in poi, prima che la mancanza di cibo fosse divenuta percettibile, hanno avuto luogo tante iniziative per rifornire quelli che ne avevano bisogno; non le conosco tutte e a volte ignoro il loro funzionamento e la loro efficacia. Comunque nei giorni successivi al 17 febbraio, la solidarietà si è manifestata innanzitutto nelle donazioni spontanee di cibo da parte di singoli. Gli uomini che hanno preso le armi per organizzare i check-point hanno suscitato subito un grande slancio di solidarietà. Per esempio i proprietari di supermercati hanno dato le loro merci ai difensori della città.

Il 26 febbraio, la Petrol Engineering Community, associazione fondata spontaneamente dai lavoratori del settore del petrolio, ha iniziato a raccogliere le donazioni dai quadri dell’industria petrolifera (da 2000 a 3000 Dl al giorno) per comprare cibo e vestiti per i soldati. Quando le forze di Gheddafi hanno attaccato Brega il 2 marzo, le donazioni sono aumentate fortemente. Dal 2 marzo fino a poco tempo fa si trattava soprattutto di bottiglie d’acqua, di latte, di succhi, di biscotti e di pastasciutta. Una parte importante di questo afflusso (sovrastimato) è stato distribuito ai viaggiatori che attraversavano i check-point. I profughi provenienti dall’Africa Centrale, dall’Africa Occidentale o dall’Egitto hanno parzialmente approfittato di questo aiuto (che era comunque ancora insufficiente per loro).

Il 6 marzo, degli ex-scout diventati studenti hanno fondato “I giovani del cambiamento”. Questa organizzazione la cui gerarchia è un po’ formale (dopotutto sono scout) comprende una trentina di membri permanenti e più di 370 volontari mobilitabili per compiti vari tra cui il trasporto, la pulizia, l’aiuto negli ospedali o la pubblicazione di articoli. Sul piano del rifornimento, si occupano degli aiuti provenienti dal Golfo. Grazie ai loro agganci e alle loro relazioni sulla costa della Cirenaica, hanno stabilito alcuni depositi a Bengasi e convogliano le derrate alimentari verso la linea del fronte. Organizzano raccolte di armi e incitano coloro che ne hanno ancora a darle ai combattenti, anche se loro stessi non sempre lo fanno. Queste associazioni spontanee hanno legami con altre più vecchie di aiuto sociale e di solidarietà, e a volte con le nuove istituzioni di Bengasi.

Istituzioni.
Ci sono di fatto tre istituzioni ufficiali che per ora non hanno nessun edificio dedicato. Quella più conosciuta è il governo provvisorio o Consiglio Nazionale di Transizione. Solo una minoranza dei suoi membri sono conosciuti, poiché molti di loro sarebbero in incognito nelle zone occupate. Il suo ruolo è quello di stabilire relazioni diplomatiche e contatti con la stampa in vista di offrire alle potenze occidentali un’alternativa credibile al sistema di Gheddafi. La seconda istituzione, poco conosciuta, è il consiglio locale, la cui importanza sembra minore. L’ultima è il consiglio cittadino, a volte chiamato consiglio locale. Comprende 13 membri, tutti personaggi pubblici di Bengasi ognuno dei quali copre un settore dei servizi pubblici: economia, banche, educazione… Non ho approfondito molto questa istituzione, ma salvo ciò che concerne l’esercito di Bengasi, sembra poco attiva. I membri del consiglio cittadino sembrano contare su ciò che già esiste: le associazioni spontanee, le istituzioni che funzionano (compagnie petrolifere, ospedali, etc.). Per quanto riguarda l’energia il responsabile Ahmed Garoushi si interessa solo alla vendita del greggio disponibile a Tobruk (100’000 barili al giorno) e al recupero dei guadagni di questa vendita che dovrebbe avere luogo nelle prossime settimane. Questi soldi sarebbero messi a disposizione del consiglio cittadino e del governo provvisorio.

Per capire meglio come si mettono in moto i meccanismi della controrivoluzione, occorre mettere in luce uno dei fenomeni più significativi di questa guerra rivoluzionaria: la formazione di “avanguardie“ e “retroguardie“ e poi cercare di capire ciò che non sembrava importante per tanti (noi compresi): i discorsi del popolo libico.
La guerra, nei suoi primi giorni, non avrebbe potuto per niente essere compresa come un’opposizione tra “avanguardia“ e “retroguardia“. Innanzitutto, tutte le città liberate uscivano da scontri lunghi, difficili e sanguinosi, che avevano coinvolto tutti (manifestanti, amici, vicini, personale degli ospedali, volontari di ogni tipo). Brega è stata presa dai suoi propri abitanti, e quando quelli di Ras Lanuf hanno ricevuto l’appoggio della gente di Bengasi una città intera si è mobilitata. Ogni abitante andava a combattere con l’arma che aveva trovato o con quella di un amico.

La formazione di un’“avanguardia“…
La truppa di combattenti che poi diventerà “l’armata del popolo” durante le battaglie di Ben Jawad, Ras Lanuf, Brega e Agedabia è nata dopo la festa delle vittorie e la sconfitta di Ben Jawad. Questa truppa, male armata, non addestrata, si è caratterizzata per la sua incapacità di avanzare più di 300-600 metri alla volta, per il suo lungo e difficile apprendimento della necessaria velocità di movimento e discrezione, e per una tempistica d’azione che assomiglia più ad una gita tra amici che ad una guerra. Quando l’ho lasciata, questa truppa non aveva né cannoni senza rinculo, né lanciarazzi, né mortai, né katiuscia, né elmetti, né giubbotti antiproiettile, e pochissime armi leggere.

Un’altra componente del fronte, quasi invisibile, è ciò che rimane dell’esercito, riorganizzato attorno ad alcuni ufficiali. Le uniche truppe veramente fedeli agli ordini sembrano essere le forze speciali. L’uso dei katiuscia, elementi indispensabili di questa guerra, è un po’ particolare. I loro tiri sono regolati dalle forze speciali, così mi hanno detto, però ho anche visto munizioni trasportate dal popolo autorganizzato. L’uso di queste armi è stato decisivo durante le offensive massicce del popolo armato (come a Ben Jawad o a Sidra). E’ quindi probabile che l’esercito ufficiale abbia avuto un ruolo importante in certe vittorie, ma appogiandosi sistematicamente agli assalti popolari e in molti casi esponendosi molto meno di loro.

…e di una “retroguardia“
Questo esercito organizzato ha invece una presenza importante in ciò che si è ormai costituito come “retrovia » del fronte. Solo le forze speciali sembrano presenti permanentemente sul campo. L’esercito invece organizza la formazione di nuove forze in una caserma, gestisce probabilmente grandi quantità d’armi e ha un legame permanente con l’embrione di Stato che sta nascendo. Questo corpo di soldati è caratterizzato dal segreto e dalla diffidenza. Non sono quelli del fronte, ma sono questi ragazzi in divisa che detengono gli equipaggiamenti e che indossano i giubbotti antiproiettile. Le radio a lungo raggio, il materiale ottico potente, le armi di grosso calibro di ultima generazione si trovano nel loro campo di addestramento. Le voci dicono che ci sarebbe un battaglione di 200-300 uomini equipaggiati bene e che impara a marciare al passo. Molti di loro lasciano il campo per raggiungere l’armata del popolo sotto i bombardamenti.

E’ certo che gli ufficiali di domani, quelli che riceveranno le medaglie e le pensioni, non sono quelli che si organizzano al di là di ogni gerarchia. Per questi ultimi esiste una realtà particolare, diversa e confusa. Si preoccupano dell’avanzata delle truppe nemiche, del rifornimento di armi, della sorte dei traditori e dei nemici. E’ importante la contraddizione fra i civili che combattono e gli altri nelle città. Presenti nei momenti di festeggiamento questi ultimi hanno disertato subito una guerra che in realtà non capiscono. A Bengasi, evitano la questione affermando che Gheddafi è finito e ascoltando canti patriottici.

Il criterio di riappropriazione delle armi da parte del popolo è stato quello dell’appropriazione privata e non quello dell’uso collettivo. Ci sono quindi migliaia di Kalashnikov, di Rpg, e anche di 30 mm che giacciono sotto i materassi o nei garage di Bengasi. Nella città, oltre l’esercito ufficiale di cui abbiamo appena parlato, nessuno sa precisamente cosa succeda sul fronte. Tutti sembrano fregarsene, nessuno sembra interessarsi troppo alla questione. Non si sentono coinvolti in questa guerra che non hanno voluto. I discorsi qui sono le frasi ripetute centinaia di volte dalla gente in strada, centinaia di: « Gheddafi monkey », « Gheddafi crazy »; sono le centinaia di caricature di Gheddafi, dei suoi discorsi. Il problema è Gheddafi, Gheddafi e non i suoi figli, Gheddafi e non il suo esercito, Gheddafi e non la sua polizia. Concedono a malapena che degli stranieri, dei mercenari di colore possano essere considerati allo stesso livello di « Gheddafi l’africano ». Qui la concordia nazionale può essere rievocata ad ogni momento. Il popolo e la gioventù si sono riappropriati del lavaggio di cervello.

I morti intralceranno sicuramente ogni tentativo di riconciliazione nazionale, ma sono stati seppelliti secondo il rito religioso. Non sono dei guerrieri, dei vinti, ma dei martiri, non li si deve piangere. I Libici devono rispettare la pace e Dio, prima delle loro amicizie e dei loro desideri. Le cinque preghiere al giorno glielo rammentano sempre, anche sul fronte. La religione è una parte importante dei discorsi, nei cortei si canta che l’unico Dio è Allah e che Allah è grande.

Il motore principale di questa rivolta sembra essere la reazione all’orgoglio smisurato di Gheddafi che si è permesso di voler sterminare un popolo che chiedeva al massimo delle riforme o la presa del potere da parte di Saif al Islam. Tutte le forme di propaganda, di logistica, di combattimento, di organizzazione inventate fino ad ora dalla rivoluzione sono stati ripresi direttamente dal modello di Gheddafi. La rivoluzione si impara forse nei gruppi di combattenti o di giovani volontari, che vivono la lotta insieme e l’organizzazione collettiva, sempre precaria di fronte ai tentativi di formalizzazione qui onnipresenti.

Q. e D., Bengasi, il 17 marzo.

I carri armati di Gheddafi.
Durante la notte tra sabato e domenica 13 marzo, le truppe di Gheddafi hanno ripreso Brega. Ciò che rimane dell’esercito del popolo libico ha tentato una controffensiva, senza successo. Dall’altra parte, l’esercito di Gheddafi dispone ormai di veicoli blindati su cingoli. Ho il sentimento che i suoi partigiani rimarranno là, su posizioni strategiche e facili da tenere. Ieri hanno disposto i loro tank in evidenza sulla cresta, di fronte agli insorti, piuttosto che lasciare i ribelli andare avanti e farsi decimare. Si può pensare inoltre che Gheddafi abbia bisogno delle sue truppe e del suo materiale per espugnare prima le città di Misurata e Zuara che ostacolano la sua agibilità strategica. I Libici, qui, pensano invece che oggi Gheddafi prenderà Agedabia e che sarà in poco tempo a Bengasi, dove c’è il resto del materiale e sicuramente le poche armi pesanti degli insorti. Tanti kalashnikov sono già tornati sotto i materassi e tanti combattenti non hanno più nessuna arma.

Per esempio ieri una macchina è andata a verificare un accampamento sospetto. Mentre si avvicinava, dei ragazzi sono usciti dalle tende correndo. L’unica persona che aveva un’arma nella macchina ha sparato, però il suo kalashnikov si è immediatamente inceppato. Nell’accampamento abbandonato, nessuna arma, e documenti del Ciad: non c’erano mercenari. Se ci fossero stati degli uomini di Gheddafi l’assenza di materiale avrebbe probabilmente costato la vita ai 4 insorti presenti sulla macchina. Ma se l’arma avesse funzionato, alcuni ciadiani sarebbero morti per niente.

Ormai l’unica cosa che sembra poter impedire l’offensiva di Gheddafi è un intervento militare importante dall’estero.

D., Bengasi, il 14 marzo.

Aggiornamento: l’esercito « militare » degli insorti ha attaccato Brega di nuovo la notte scorsa, uccidendo 25 soldati nemici e facendo 20 prigionieri che sono stati portati a Bengasi.

Aggiornamento 2: oggi le truppe di Gheddafi hanno bombardato Agedabia ma non hanno avanzato tanto verso est. A ovest invece, hanno ripreso Zuara e degli scontri hanno avuto luogo a Misurata.

Gheddafi riprende Ras Lanuf.
Giovedì 10 marzo al mattino, le truppe di Saadi, figlio di Gheddafi, hanno ripreso dalle mani degli insorti la città di Sidra, prima di spostarsi verso il porto petrolifero di Ras Lanuf. A 5 chilometri dalla città, l’esercito ha iniziato a bombardare: tiri d’artiglieria, bombe sganciate dagli aerei e magari anche missili lanciati dalle navi. A Ras Lanuf, un ospedale di fortuna è stato allestito nella strada dal momento che quello vero è stato distrutto dalle esplosioni. Nonostante la violenza dell’offensiva, Gheddafi dà ancora l’impressione di trattenersi. Avrebbe potuto bombardare già da tempo le porte di Ras Lanuf e Brega e distruggere le poche armi pesanti degli insorti. Ma sembra ancora cercare uno sbocco, una via tra la sconfitta di fronte alla rivoluzione e un massacro che darebbe un pretesto a un intervento dall’estero. Se decide invece di fare di tutto per schiacciare gli insorti, si possono prevedere bombardamenti a tappeto e l’uso di armi chimiche.

Sono andato a Brega e poi a Bengasi dopo la sconfitta di Ras Lanuf, verso le cinque del pomeriggio. Nonostante la sua « semplicità » apparente, il deserto è di fatto un terreno in tre dimensioni. Si potrebbe pensare che i ribelli ne usino solo due; in realtà ne usano solo una: la strada. Ecco il costo della guerra in jeans di marca e profumi cheap, nessuno considera il terreno come uno spazio liscio; nessuno costruisce difese, nessuno scava rifugi, nessuno cerca di nascondersi. La stessa sera, le truppe lealiste bombardavano Brega. Dalla parte degli insorti si mormora che l’esercito (o ciò che rimane dell’esercito regolare) ha in realtà teso una trappola a Gheddafi lasciandogli Ras Lanuf, e che l’offensiva degli insorti ricomincerà l’indomani partendo da Brega. Il figlio di Gheddafi sostiene ormai di voler marciare su Bengasi.

E’ un obiettivo importante perché si tratta della più grande città ancora in mano agli insorti, ed è là che il Consiglio Nazionale di Transizione ha sede. La decisione della Francia di riconoscere quest’ultimo come solo interlocutore legittimo per la Libia, insieme all’azione della diplomazia francese sul luogo, ha prodotto la comparsa di bandiere tricolori un po’ dappertutto e di simpaticissimi slogan, come « Merci Sarkozy » scanditi da donne coperte dal niqab (apprezzerete l’ironia della situazione).

Si può dire che la Libia stia vivendo un’insurrezione, un sollevamento di popolo, ma non ancora una rivoluzione. Contrariamente a ciò che si poteva vedere a Teheran nel 1979, uno dovrebbe essere in malafede per vederci qui una situazione di rivolta contro l’Occidente, o anche solo l’inizio di una critica dell’idea di vita egemone nei nostri Paesi. La situazione è pure molto diversa da quella della Tunisia durante l’occupazione della Casbah e dell’Egitto durante l’occupazione di Piazza Tahrir. Ciò che prevale qui è un’unità contro Gheddafi il tiranno. Non si tratta per ora di nient’altro che un cambio di dirigenza. Lo dimostra anche il sostegno su cui può ancora contare il Consiglio Nazionale di Transizione, il cui ruolo si limita per ora principalmente a trattative diplomatiche.

Qualche giorno fa, un lettore aveva posto una domanda sull’influenza della « struttura tribale » della Libia rispetto all’insurrezione. Poneva tra l’altro la questione delle faide, o della nascita di un nuovo regime autoritario basato su tale struttura.
Il carattere tribale della guerra è in verità poco rilevante. Forse è in parte legato al fatto che la guerra abbia luogo soprattutto nel nord del Paese. Resta il fatto che l’esercito degli shebab è una cosa con più sfaccettature, composta da gente proveniente da tutta la costa ovest della Cirenaica. Ci sono delle persone originarie del Ciad o del Mali che vivono da tanto tempo sulla costa libica, senza contare i numerosi egiziani e anche qualche studente palestinese giunto a sostenere l’insurrezione. Se ci dovessero essere conflitti di potere tra gruppi tribali, si verificherebbero piuttosto all’interno delle neonate istituzioni.
Per quanto riguarda l’esercito di Gheddafi, è innanzitutto un esercito di professione. Questa guerra appare sempre più come una guerra privata di un singolo contro un popolo.

Questo ci porta ad un’altra domanda che è stata posta a proposito del sostegno degli stranieri all’insurrezione.
Per quanto riguarda il sostegno logistico, ciò che poteva essere fatto in poco tempo è già in attuazione. Sul fronte, non mancano né cibo, né vestiti, né acqua, né soldi, né armi leggeri. Questo grazie ai primi saccheggi ma anche alle forniture di materiale che sembrano arrivare dagli Emirati Arabi, da Dubai, e soprattutto dall’Egitto. Ciò che manca ormai agli insorti (in termini perlopiù di materiale bellico) sono le armi pesanti, e pure la coordinazione e le conoscenze necessarie al loro uso. Tante cose sono state scritte sull’inesperienza dei ribelli al fronte. Molti dei feriti lo sono per colpi di piccolo calibro, che si può supporre siano di fuoco amico. Le loro mitragliatrici 12,7 mm tendono a incepparsi. E non dispongono di certe informazioni militari importanti (tavole di tiro per le loro armi sovietiche per esempio).
Se la guerra andasse per le lunghe, si ci potrebbe aspettare che dei combattenti di altri paesi arabi (o da altre parti) vengano a unirsi agli insorti – parlo del mondo arabo poiché è completamente proiettato in un movimento comune che ha conosciuto dei successi e delle sconfitte dalla Tunisia in poi. Ma per il momento, quando si parla di eventuali combattenti stranieri la gente qui prova una certa diffidenza (timore che la loro rivolta venga recuperata, per esempio).

Notizie fresche e aggiornamenti.
L’insurrezione sembra svoltare in una guerra di posizione, ma nessuno può dire se durerà tre giorni o vent’anni. Uno stato maggiore si è costituito a Bengasi per tentare di sfondare il fronte a Ras Lanuf. Oggi, i lealisti hanno bombardato Ras Lanuf senza subire risposta. Una bomba è caduta su una casa per fortuna vuota, mentre un’altra ha distrutto la cisterna. Ras Lanuf non ha più acqua.

Ben Jawad è in una conca. Saadi, il figlio di Gheddafi che si trova attualmente nelle vicinanze, l’ha trasformata in una trappola per i rivoluzionari. Ha di fatto piazzato la sua artiglieria e i suoi cecchini sulle creste. Ciò nonostante i più giovani shebab li assaltano regolarmente e disperatamente. Le vie della città cominciano a riempirsi di feriti pieni di bende. Ci si sentono ormai i colpi d’artiglieria segno che gli scontri si avvicinano pericolosamente. Si scorgono anche delle discussioni molto accese tra i giovani che vogliono andare a combattere e gli altri, vecchi e giovani, che vogliono impedirglielo. Al Arabia ha annunciato che quelli di Bani Walid starebbero marciando su Arawa. Se questa informazione fosse vera sarebbe molto importante perché Saadi potrebbe ora trovarsi chiuso in una sacca.

Se all’inizio della battaglia di Agedabia-Brega la vendetta e la rabbia sembravano il cuore dell’azione dei shebab, molto velocemente, con l’afflusso di gente da Bengasi, gli affetti sono cambiati. Le vittorie hanno all’inizio dato alla guerra il senso di una liberazione. Non ho mai sentito parlare né visto delle esecuzioni sommarie di soldati o di miliziani di Gheddafi (nonostante gli sforzi da parte di vendicatori assetati di onore o di giornalisti alla ricerca di immagini trash). Un uomo nella macchina che ci ha portato a Ras Lanuf si è fatto circondare, durante una pausa, da tutti combattenti che lo abbracciavano e lo consolavano. Questo tipo conosceva un tale, pro-Gheddafi, al quale aveva detto di fuggire, ma questi era rimasto e ne aveva pagato il prezzo.

Brega è stata presa dalla gente del posto e tutte le altre città con l’aiuto dei loro abitanti dopo lunghe trattative. E’ questo che non ha funzionato a Ben Jawad. La popolazione era divisa, in maggior parte sfavorevole agli insorti, e la concentrazione di armi pesanti dei figli di Gheddafi ha in fine convinto la popolazione di unirsi al potere. La situazione vicino al fronte di Sirte è particolarmente preoccupante. Entriamo in una regione sotto totale controllo di Gheddafi. I Gheddafa, la sua tribù, sono maggioritari, e tutta la popolazione della zona è privilegiata, soprattutto nella città di Sirte.

Fare la guerra in queste zone non è più una liberazione, ma serve ad andare verso Misurata e Zawia. Questa mossa, solamente strategica, è una rottura franca delle cause e degli obiettivi della guerra. Se gli insorti infrangono l’offensiva di Gheddafi e sfondano verso Arawa, ci sarà una grande battaglia; e se attraversano Sirte, è quasi certo che non dovranno più combattere veramente. Però a Sirte scorreranno fiumi di sangue se si entrerà nella città. Nessuno vuole questo e nessuno è pronto a ciò; tutti parlano per ora di Sirte come di una cosa semplice e astratta.

Si dice che i Wolfalla (tribù presente nelle città di Bani Whalid e Magarha) hanno deciso di marciare su Sirte.

Aggiornamento (8 marzo) a proposito del carattere « tribale » di alcune posizioni.
Quando ho detto che i Wolfalla stavano per marciare su Sirte, ho messo il nome delle città per poter situarle, però non si tratta di rivolte urbane. Questo impegno è più politico e più permanente, segue anche un’altra tempistica, più lunga. In una città come Sabba, anch’essa favorevole al potere e che chiude con Sirte la strada verso Tripoli, la composizione tribale è determinante. Dai tre gruppi (Gheddafa, Baniwhalidi e Magara), solo uno, i Gheddafa, è dalla parte di Gheddafi, ed è stato armato dall’inizio. Gli altri, tenuti sotto terrore permanente dalla polizia che arresta ogni giorno la gente per interrogarla, sembrano aver perduto ogni capacità di organizzarsi.

A Bengasi, il governo provvisorio teneva oggi una conferenza stampa all’albergo Tibesti. Il governo è composto da 31 membri (uomini e donne). 8 di loro rappresentano Bengasi, e la loro identità è nota, gli altri provengono da altre città del Paese (come Tripoli o Sirte). I rappresentanti delle città ancora sotto controllo del potere tengono segreta la loro identità. Infine, due membri abitano negli Stati Uniti in qualità di ambasciatori. La metà dei membri di questo nuovo governo, costituitosi in seguito alla liberazione di Bengasi, sono ex-detenuti del regime. Solo uno di loro faceva parte del governo, si tratta del presidente: Mustafa Abdhljalil, attorno a cui si è costituita l’attuale diplomazia. I membri del governo sono stati scelti dalle diverse tribù della Cirenaica poi presentati agli Stati Uniti e all’ONU – che dovevano trovare qualcuno che li assomigliasse con cui discutere. Certi membri di questo governo sono « in contatto permanente » con gli americani, tra l’altro tramite il nuovo ambasciatore libico laggiù. I Libici che purtroppo rifiutano ogni intervento straniero non sembrano così scioccati dall’evidente « ingerenza » degli USA e dell’ONU.

Nell’insieme, a Bengasi, il governo provvisorio non sembra contestato pubblicamente. Occorre notare che, come già abbiamo detto, non prende, per ora, alcuna decisione importante che incida in un modo o nell’altro nella vita degli abitanti. Si occupa per ora di piacere agli americani e ai buffoni in giacca e cravatta dell’ONU. Si approfitta dell’unità dei « giorni prima della caduta del dittatore ». Il popolo è unito quando lotta contro questo mostro; le divisioni appaiono dopo, come ha dimostrato la situazione tunisina.

Q., D., E., Ras Lanuf, Bengasi, l’8 marzo.

Intorno a Ras Lanuf e sul fronte. 4-5-6 marzo.
Approfittando della preghiera del venerdì, un assalto partito da Bengasi verso Ras Lanuf ha raggiunto, il 4 marzo, le forze che si battevano ad Agedabia. Dalla metà del pomeriggio fino alla sera macchine di ogni tipo si sono mosse velocemente verso Ras Lanuf, creando ingorghi in tutte le direzioni (caserme, installazioni per il gas, uffici della compagnia). Ogni incrocio diventava un luogo di discussioni strategiche e tattiche: come andare in un dato posto, come non farsi sparare da quelli appostati lì, etc. Le macchine che erano in prima linea hanno finalmente preso la città grazie a uno stratagemma complesso (sarebbe lungo da spiegare, e i ragazzi mi hanno chiesto di non svelarlo). Questo stratagemma è stato reso possibile grazie ai consigli di due ex-ufficiali dell’esercito. La sera, i combattenti dormono insieme nelle case degli abitanti, poveri o ricchi. Le donne sono (per ora) totalmente invisibili.

La mattina del giorno successivo, mentre tutti ancora dormivano, una bomba è caduta in periferia e ha fatto tremare tutti i muri. Quel giorno ho oltrepassato il fronte di 100 km per andare a Nofalia. La città era sorvolata regolarmente dai Mirage F1 e dagli elicotteri Mi-24 che andavano in osservazione verso Ben Jawad. Nel tardo pomeriggio, ho trovato degli shebab sotto il fuoco di un Mi-24; erano andati oltre Ben Jawad. L’elicottero ha lanciato i suoi razzi vicino alla strada e poi ha sparato di nuovo con la sua mitragliera calibro 50 a tiro veloce e ci sono stati feriti. Ho saputo che un Mirage F1 era stato abbattuto vicino a Ben Jawad da un vecchietto con un cannone di piccolo calibro, il che è un piccolo miracolo (per congratularsi con lui i ragazzi gli dicevano : “sei un uomo migliore di me”).

In complesso qui ci sono molte armi e munizioni (in realtà solo un uomo su cinque è veramente equipaggiato, poi ci sono gli autisti, quelli che sparano con i cannoni antiaerei, quelli che portano le munizioni o il cibo, etc.). Tutte queste armi e munizioni sono state saccheggiate nelle caserme. Infatti, se Zauia è così nei guai è appunto perché gli insorti non hanno potuto saccheggiare il suo deposito di munizioni.

Questa abbondanza di armi e munizioni ha incoraggiato, nei primi tempi, un rapporto con esse che ha avuto delle conseguenze spiacevoli. Gli insorti hanno perso molto materiale. Gli incidenti sono molto frequenti (più volte delle granate sono esplose a 5-10 metri da noi). Le munizioni attive, fuori uso o solo difettose spesso sono semplicemente lasciate in mezzo al deserto. Le armi si rovinano, si riempiono di sabbia, sono lubrificate con della benzina (un soldato lo voleva fare con dell’esplosivo, non leggeva l’alfabeto latino). Degli obici sono stati portati via dalle caserme senza le loro tavole di tiro. Questo rapporto in apparenza poco “serio” rispetto alle armi è in parte dovuto al fatto che sono state vietate per tanto tempo. Da un lato gran parte delle persone non le sanno usare, ma dall’altro lato esercitano un fascino enorme su tutti. All’inizio, molte armi sono state tenute dalla gente a casa (anche granate di artiglieria, schegge di bombe, cose assurde). Ma le conoscenze pratiche si acquistano velocemente e molte armi iniziano a salire verso il fronte, a volte accompagnate dei loro nuovi proprietari. E poi ci sono anche queste altre armi, non meno importanti delle armi da fuoco, che sono i grossi pick-up bianchi la cui maggioranza, con le scritte in rosso ricoperte o sbarrate con una bomboletta, apparteneva alla polizia.

Gli insorti si riappropriano in parte delle tecniche di guerra. Non conoscono le misure esatte ma riconoscono le munizioni. Quando non sanno i nomi dei materiali, ne inventano dei nuovi. Per esempio, il cannone antiaerei di 17,5 mm o 20 mm, che è l’arma per eccellenza di questa guerra è stato battezzato “min ta”, diminutivo di “melata erath”, “we have resistance”.

Per quanto riguarda il rifornimento di cibo, si può dire che è impressionante. Gli insorti ne hanno sempre: una cifra di dolciumi vari, lattine di ogni tipo, bottiglie e bottigliette, biscotti, etc. All’inizio si poteva pensare che tutto questo era frutto dei saccheggi, ma ce ne sono sempre di più: credo che siano donazioni. La cosa più pazza sono questi bicchieri di acqua minerale sigillati che sono portati fino alla prima linea del fronte.

Sabato sera, le truppe si sono disposte sulla strada in direzione di Sultan per prepararsi alla battaglia annunciata per i prossimi giorni ad Arawa. Durante la notte gli scontri hanno iniziato a Ben Jawad. La mattina, decidiamo di andarci. Il fronte è sulla strada, i nemici a più di 10 chilometri, non si vedono, le granate piovono a ritmo discontinuo. I tiri sono regolati bene per quanto riguarda la direzione, ma esplodono spesso troppo in alto o eccessivamente rasoterra. Siamo circondati dai tiri e dobbiamo battere in ritirata. I shebab contrattaccano, alimentano gli obici di 106 mm. Gli insorti si fanno massacrare, ci sono molti feriti, altri contrattacchi falliscono, l’artiglieria ci circonda di nuovo: andiamo via.

La rivoluzione, questa domenica 6 marzo, ha dovuto affrontare i carri armati, gli elicotteri e i cecchini portati a Ben Jawad dai figli di Gheddafi. Adesso tutti sono molto tesi, la popolazione fugge da Ras Lanuf. Questa città è importante per Gheddafi ma rimane difficile da prendere: i ragazzi non vogliono ritirarsi e il terreno non è più libero per far passare l’armamento pesante. Questa mattina la gente continua a andarsene e rimangono solo i combattenti.

D., Ras Lanuf, il 6 marzo.

Bengasi si sveglia, il nostro popolo muore

Questa  guerra sembra una opera teatrale che va in scena ogni giorno,
instancabilmente. Cambia solo la scena, da Brega a Ben Jawad, da Ben Jawad a Brega,
ogni volta un po’ più rovinata.

Lo stato provvisorio si rivolge ormai solo ai branchi di giornalisti che, non
sapendo esattamente cosa fare delle loro giornate, si occupano agglutinandosi, da
conferenza stampa in conferenza stampa. Tutto sembra normale. Si vorrebbe che tutto
sia come prima, eppure è tutto diverso.

Il centro di Bengasi conta ancora tanti uffici del nuovo stato. Organizzazioni di
gioviani o di lavoratori, sempre più bulimici di simboli, di bandiere, di
uffici-col-nome-sulla-porta. Ma le guardie armate, così pallosi e fieri fino a ieri,
si fanno sempre più rari, stufi di rappresentarsi davanti agli occidentali navigati.

Il vero Stato della nuova Libia non è, e non è mai stato, il Comitato Nazionale di
Transizione. Sembra d’altronde che la sua unica attività extra-mediatica sia stata
quella di recuperare i soldi del petrolio per riempire chi sa che cassa. Costituisce
senza dubbio  solo il pretesto di un mezzo di stampa che costruisce alla rinfusa il
patetico, le immagine, il discorso e il ritmo di questo spettacolo che è l'etica
rivoluzionaria in Libia.

Se esiste qualcosa come uno “Stato”, si situa piuttosto negli uffici di Al Jazeera.
Se uno vuole delle notizie della guerra o vuole sapere cos'è l'ultimo corteo,
bisogna accendere la televisione. 

Qui nessuno obbedisce a nessuno. Certo gli sbirri ricompaiono ma la metà sono dei
ragazzini o dei tipi che hanno recuperato delle divise. Non si organizzano insieme
né sotto la tutela del CNT. 

La presenza di un esercito organizzato è la voce che gira di più (senza contare
quella che annuncia il sollevamento di Sirte, voce tanto mitica quanto ricorrente).

Il fronte è d'altronde ridiventato un “privé” con selezione all'ingresso. In questa
battaglia che non finisce più da Brega a Ben Jawad, non c'è niente di interessante
da fare per chi non fa parte di una squadra di artiglieria, o non vuole morire da
martire. La guerra si specializza ma non si può dire che ci sono “specialisti” nel
campo degli insorti. I “militari professionisti”, organizzati e furtivi, più o meno
comandati da un panorama di generali e colonnelli, e che molti giornalisti
pretendono aver visto, stanno diventando uno scherzo sempre meno divertente. Ci sono
dei militari addestrati e equipaggiati sul fronte, ma sono i soldati di Gheddafi e
colpiscono gli shebab. A dire il vero, questo fantasma che sembra uscito da un video
cheap per il reclutamento dei marines serve sopratutto a bloccare i giornalisti
all'ultimo check-point, ma non funziona. E' molto facile oltrepassarlo, e tutti lo
fanno. 

In un articolo precedente descrivevamo la costituzione di un'“avanguardia” e una
“retroguardia”: bisogna capire questo al livello della forma di vita. Sono tutti
civili e ciò che differenzia quelli che vanno sul fronte dagli altri è un certo
interesse per i combattimenti e, di conseguenza, un rapporto abbastanza
demistificato allo scontro bruto. Ci sono ovviamente alcune persone che dopo esser
stati sul fronte una volta tornano in città per tirarsela, ma questi atteggiamenti
sono piuttosto rari. 

La questione tribale  si pone o si porrà solo nelle città di Sebha e di Sirte. Per
quanto ne sappiamo, da qualsiasi altra parte, è come qui: gli insorti sono degli
individui che si radunano sul fronte. Si organizzano in gruppi di tre o quattro
veicoli al massimo e si occupano loro stessi della propria logistica. Vengono
aiutati da tipi che si organizzano da soli per riempire i pick-up di cibo e e di
acqua per portarli in prima linea. Si parte sul fronte insieme perché si è amici sul
lavoro, o della stessa famiglia o dello stesso circolo subacquei però non c'è niente
che assomigli ad una composizione “tribale”, come non c'è nessuna distinzione
formale tra militari e civili. Nelle strade di Bengasi, è impossibile distinguere i
“combattenti” del resto della popolazione.

I capi in erba e la curiosità dei cittadini di Bengasi hanno abbandonato il fronte
alle poche persone che credevano abbastanza in ciò che facevano.

I ruoli si dissolvono e i rapporti tra le persone diventano rapporti realmente
compartecipativi Anche i fotografi venuti a giocare in questo film di guerra si
trovano coinvolti e condividono fortemente l'esperienza con gli shebab. Il rapporto
con gli occidentali sul fronte è diventato molto chiaro. Da un lato gli shebab
considerano quasi come compagni quelli che mangiano con loro, viaggiano con loro
sulle macchine che vanno verso il fronte, etc. Da un altro lato possono essere molto
freddi nei confronti di quelli che sembrano di essere solo curiosi, inviati qui come
potrebbero essere inviati alla prima della Scala. 

Come durante l'occupazione di Ras Lanuf, la guerra è sempre di più vissuta come lo
stato normale delle cose. L'esercito non è mai stato così piccolo, ma è organizzato
bene. L'artiglieria si colloca sulle creste, il ricaricamento si fa velocemente e
tutti lo sanno fare ed appaiono delle nuove armi.

Anche l'artiglieria pesante si costruisce con mezzi di fortuna: lanciarazzi grad
azionati da interruttori per le case, mortai fatti con dei tubi recuperati e,
ciliegina sulla torta, lanciarazzi di elicotteri Mi-24 montati su dei pick-up e
capaci di lanciare una trentina di razzi di 57 mm in un lampo grazie a un controllo
di tiro improvvisato.

La solidarietà internazionale non si vede sul fronte. Ci sono solo le macchine degli
abitanti di Bengasi, Brega o Tobruk che portano delle cose che hanno comprato con i
loro propri soldi.

Anche a Bengasi la normalità puzza di zolfo. Tutti i negozi sono aperti tranne le
banche, nonostante la loro grande importanza simbolica. Il venditore di cuoio che
una settimana fa vendeva ancora delle cinture e riparava le scarpe dei bambini,
vende ormai in un pomeriggio cinque o sei fondine, tre o quattro bretelle per
kalashnikov, un giubbotto antiproiettile e... una cintura rosa per fighetti. 

Due giorni fa ho incontrato dei giovani del fronte di Agedabia. Mi  hanno portato
fino a un carro armato sul quale, con due tamburini, ballano e improvvisano dei
canti che si rispondono, ripresi da alcuni, criticati da altri, interrotti e poi
ripresi... Ogni sera, tali gruppi si formano con delle persone e delle danze
diverse.

Oggi una nave turca che portava aiuti alimentari è stata respinta dopo quindici
minuti passati sul molo. I Libici insistono sul fatto che non hanno bisogno di cibo
ma di armi e di sostegno militare. Sempre più persone dicono chiaramente che se la
coalizione non bombarda le truppe di Gheddafi, è perché l'ha scelto. Dal momento in
cui ha distrutto chirurgicamente tutti i veicoli lealisti da Bengasi a Brega, e
visto la precisione con la quale i carri armati sono stati decapitati delle loro
torrette, si può effettivamente pensare che la coalizione ha deciso intenzionalmente
di fermarsi a questo punto.

5 commentaires pour Italiano

  1. traduction_en_italien dit :

    Voici les traductions en italien de trois articles plus anciens (« Les tanks de Kadhafi », « Kadhafi reprend Ras Lanuf » et « Nouvelles fraîches et changements »).

    I carri armati di Gheddafi.
    Durante la notte tra sabato e domenica 13 marzo, le truppe di Gheddafi hanno ripreso Brega. Ciò che rimane dell’esercito del popolo libico ha tentato una controffensiva, senza successo. Dall’altra parte, l’esercito di Gheddafi dispone ormai di veicoli blindati su cingoli. Ho il sentimento che i suoi partigiani rimarranno là, su posizioni strategiche e facili da tenere. Ieri hanno disposto i loro tank in evidenza sulla cresta, di fronte agli insorti, piuttosto che lasciare i ribelli andare avanti e farsi decimare. Si può pensare inoltre che Gheddafi abbia bisogno delle sue truppe e del suo materiale per espugnare prima le città di Misurata e Zuara che ostacolano la sua agibilità strategica. I Libici, qui, pensano invece che oggi Gheddafi prenderà Agedabia e che sarà in poco tempo a Bengasi, dove c’è il resto del materiale e sicuramente le poche armi pesanti degli insorti. Tanti kalashnikov sono già tornati sotto i materassi e tanti combattenti non hanno più nessuna arma.

    Per esempio ieri una macchina è andata a verificare un accampamento sospetto. Mentre si avvicinava, dei ragazzi sono usciti dalle tende correndo. L’unica persona che aveva un’arma nella macchina ha sparato, però il suo kalashnikov si è immediatamente inceppato. Nell’accampamento abbandonato, nessuna arma, e documenti del Ciad: non c’erano mercenari. Se ci fossero stati degli uomini di Gheddafi l’assenza di materiale avrebbe probabilmente costato la vita ai 4 insorti presenti sulla macchina. Ma se l’arma avesse funzionato, alcuni ciadiani sarebbero morti per niente.

    Ormai l’unica cosa che sembra poter impedire l’offensiva di Gheddafi è un intervento militare importante dall’estero.

    D., Bengasi, il 14 marzo.

    Aggiornamento: l’esercito « militare » degli insorti ha attaccato Brega di nuovo la notte scorsa, uccidendo 25 soldati nemici e facendo 20 prigionieri che sono stati portati a Bengasi.

    Aggiornamento 2: oggi le truppe di Gheddafi hanno bombardato Agedabia ma non hanno avanzato tanto verso est. A ovest invece, hanno ripreso Zuara e degli scontri hanno avuto luogo a Misurata.

    ——————————————————-

    Gheddafi riprende Ras Lanuf.
    Giovedì 10 marzo al mattino, le truppe di Saadi, figlio di Gheddafi, hanno ripreso dalle mani degli insorti la città di Sidra, prima di spostarsi verso il porto petrolifero di Ras Lanuf. A 5 chilometri dalla città, l’esercito ha iniziato a bombardare: tiri d’artiglieria, bombe sganciate dagli aerei e magari anche missili lanciati dalle navi. A Ras Lanuf, un ospedale di fortuna è stato allestito nella strada dal momento che quello vero è stato distrutto dalle esplosioni. Nonostante la violenza dell’offensiva, Gheddafi dà ancora l’impressione di trattenersi. Avrebbe potuto bombardare già da tempo le porte di Ras Lanuf e Brega e distruggere le poche armi pesanti degli insorti. Ma sembra ancora cercare uno sbocco, una via tra la sconfitta di fronte alla rivoluzione e un massacro che darebbe un pretesto a un intervento dall’estero. Se decide invece di fare di tutto per schiacciare gli insorti, si possono prevedere bombardamenti a tappeto e l’uso di armi chimiche.

    Sono andato a Brega e poi a Bengasi dopo la sconfitta di Ras Lanuf, verso le cinque del pomeriggio. Nonostante la sua « semplicità » apparente, il deserto è di fatto un terreno in tre dimensioni. Si potrebbe pensare che i ribelli ne usino solo due; in realtà ne usano solo una: la strada. Ecco il costo della guerra in jeans di marca e profumi cheap, nessuno considera il terreno come uno spazio liscio; nessuno costruisce difese, nessuno scava rifugi, nessuno cerca di nascondersi. La stessa sera, le truppe lealiste bombardavano Brega. Dalla parte degli insorti si mormora che l’esercito (o ciò che rimane dell’esercito regolare) ha in realtà teso una trappola a Gheddafi lasciandogli Ras Lanuf, e che l’offensiva degli insorti ricomincerà l’indomani partendo da Brega. Il figlio di Gheddafi sostiene ormai di voler marciare su Bengasi.

    E’ un obiettivo importante perché si tratta della più grande città ancora in mano agli insorti, ed è là che il Consiglio Nazionale di Transizione ha sede. La decisione della Francia di riconoscere quest’ultimo come solo interlocutore legittimo per la Libia, insieme all’azione della diplomazia francese sul luogo, ha prodotto la comparsa di bandiere tricolori un po’ dappertutto e di simpaticissimi slogan, come « Merci Sarkozy » scanditi da donne coperte dal niqab (apprezzerete l’ironia della situazione).

    Si può dire che la Libia stia vivendo un’insurrezione, un sollevamento di popolo, ma non ancora una rivoluzione. Contrariamente a ciò che si poteva vedere a Teheran nel 1979, uno dovrebbe essere in malafede per vederci qui una situazione di rivolta contro l’Occidente, o anche solo l’inizio di una critica dell’idea di vita egemone nei nostri Paesi. La situazione è pure molto diversa da quella della Tunisia durante l’occupazione della Casbah e dell’Egitto durante l’occupazione di Piazza Tahrir. Ciò che prevale qui è un’unità contro Gheddafi il tiranno. Non si tratta per ora di nient’altro che un cambio di dirigenza. Lo dimostra anche il sostegno su cui può ancora contare il Consiglio Nazionale di Transizione, il cui ruolo si limita per ora principalmente a trattative diplomatiche.

    Qualche giorno fa, un lettore aveva posto una domanda sull’influenza della « struttura tribale » della Libia rispetto all’insurrezione. Poneva tra l’altro la questione delle faide, o della nascita di un nuovo regime autoritario basato su tale struttura.
    Il carattere tribale della guerra è in verità poco rilevante. Forse è in parte legato al fatto che la guerra abbia luogo soprattutto nel nord del Paese. Resta il fatto che l’esercito degli shebab è una cosa con più sfaccettature, composta da gente proveniente da tutta la costa ovest della Cirenaica. Ci sono delle persone originarie del Ciad o del Mali che vivono da tanto tempo sulla costa libica, senza contare i numerosi egiziani e anche qualche studente palestinese giunto a sostenere l’insurrezione. Se ci dovessero essere conflitti di potere tra gruppi tribali, si verificherebbero piuttosto all’interno delle neonate istituzioni.
    Per quanto riguarda l’esercito di Gheddafi, è innanzitutto un esercito di professione. Questa guerra appare sempre più come una guerra privata di un singolo contro un popolo.

    Questo ci porta ad un’altra domanda che è stata posta a proposito del sostegno degli stranieri all’insurrezione.
    Per quanto riguarda il sostegno logistico, ciò che poteva essere fatto in poco tempo è già in attuazione. Sul fronte, non mancano né cibo, né vestiti, né acqua, né soldi, né armi leggeri. Questo grazie ai primi saccheggi ma anche alle forniture di materiale che sembrano arrivare dagli Emirati Arabi, da Dubai, e soprattutto dall’Egitto. Ciò che manca ormai agli insorti (in termini perlopiù di materiale bellico) sono le armi pesanti, e pure la coordinazione e le conoscenze necessarie al loro uso. Tante cose sono state scritte sull’inesperienza dei ribelli al fronte. Molti dei feriti lo sono per colpi di piccolo calibro, che si può supporre siano di fuoco amico. Le loro mitragliatrici 12,7 mm tendono a incepparsi. E non dispongono di certe informazioni militari importanti (tavole di tiro per le loro armi sovietiche per esempio).
    Se la guerra andasse per le lunghe, si ci potrebbe aspettare che dei combattenti di altri paesi arabi (o da altre parti) vengano a unirsi agli insorti – parlo del mondo arabo poiché è completamente proiettato in un movimento comune che ha conosciuto dei successi e delle sconfitte dalla Tunisia in poi. Ma per il momento, quando si parla di eventuali combattenti stranieri la gente qui prova una certa diffidenza (timore che la loro rivolta venga recuperata, per esempio).

    ——————————————-

    Notizie fresche e aggiornamenti.
    L’insurrezione sembra svoltare in una guerra di posizione, ma nessuno può dire se durerà tre giorni o vent’anni. Uno stato maggiore si è costituito a Bengasi per tentare di sfondare il fronte a Ras Lanuf. Oggi, i lealisti hanno bombardato Ras Lanuf senza subire risposta. Una bomba è caduta su una casa per fortuna vuota, mentre un’altra ha distrutto la cisterna. Ras Lanuf non ha più acqua.

    Ben Jawad è in una conca. Saadi, il figlio di Gheddafi che si trova attualmente nelle vicinanze, l’ha trasformata in una trappola per i rivoluzionari. Ha di fatto piazzato la sua artiglieria e i suoi cecchini sulle creste. Ciò nonostante i più giovani shebab li assaltano regolarmente e disperatamente. Le vie della città cominciano a riempirsi di feriti pieni di bende. Ci si sentono ormai i colpi d’artiglieria segno che gli scontri si avvicinano pericolosamente. Si scorgono anche delle discussioni molto accese tra i giovani che vogliono andare a combattere e gli altri, vecchi e giovani, che vogliono impedirglielo. Al Arabia ha annunciato che quelli di Bani Walid starebbero marciando su Arawa. Se questa informazione fosse vera sarebbe molto importante perché Saadi potrebbe ora trovarsi chiuso in una sacca.

    Se all’inizio della battaglia di Agedabia-Brega la vendetta e la rabbia sembravano il cuore dell’azione dei shebab, molto velocemente, con l’afflusso di gente da Bengasi, gli affetti sono cambiati. Le vittorie hanno all’inizio dato alla guerra il senso di una liberazione. Non ho mai sentito parlare né visto delle esecuzioni sommarie di soldati o di miliziani di Gheddafi (nonostante gli sforzi da parte di vendicatori assetati di onore o di giornalisti alla ricerca di immagini trash). Un uomo nella macchina che ci ha portato a Ras Lanuf si è fatto circondare, durante una pausa, da tutti combattenti che lo abbracciavano e lo consolavano. Questo tipo conosceva un tale, pro-Gheddafi, al quale aveva detto di fuggire, ma questi era rimasto e ne aveva pagato il prezzo.

    Brega è stata presa dalla gente del posto e tutte le altre città con l’aiuto dei loro abitanti dopo lunghe trattative. E’ questo che non ha funzionato a Ben Jawad. La popolazione era divisa, in maggior parte sfavorevole agli insorti, e la concentrazione di armi pesanti dei figli di Gheddafi ha in fine convinto la popolazione di unirsi al potere. La situazione vicino al fronte di Sirte è particolarmente preoccupante. Entriamo in una regione sotto totale controllo di Gheddafi. I Gheddafa, la sua tribù, sono maggioritari, e tutta la popolazione della zona è privilegiata, soprattutto nella città di Sirte.

    Fare la guerra in queste zone non è più una liberazione, ma serve ad andare verso Misurata e Zawia. Questa mossa, solamente strategica, è una rottura franca delle cause e degli obiettivi della guerra. Se gli insorti infrangono l’offensiva di Gheddafi e sfondano verso Arawa, ci sarà una grande battaglia; e se attraversano Sirte, è quasi certo che non dovranno più combattere veramente. Però a Sirte scorreranno fiumi di sangue se si entrerà nella città. Nessuno vuole questo e nessuno è pronto a ciò; tutti parlano per ora di Sirte come di una cosa semplice e astratta.

    Si dice che i Wolfalla (tribù presente nelle città di Bani Whalid e Magarha) hanno deciso di marciare su Sirte.

    Aggiornamento (8 marzo) a proposito del carattere « tribale » di alcune posizioni.
    Quando ho detto che i Wolfalla stavano per marciare su Sirte, ho messo il nome delle città per poter situarle, però non si tratta di rivolte urbane. Questo impegno è più politico e più permanente, segue anche un’altra tempistica, più lunga. In una città come Sabba, anch’essa favorevole al potere e che chiude con Sirte la strada verso Tripoli, la composizione tribale è determinante. Dai tre gruppi (Gheddafa, Baniwhalidi e Magara), solo uno, i Gheddafa, è dalla parte di Gheddafi, ed è stato armato dall’inizio. Gli altri, tenuti sotto terrore permanente dalla polizia che arresta ogni giorno la gente per interrogarla, sembrano aver perduto ogni capacità di organizzarsi.

    A Bengasi, il governo provvisorio teneva oggi una conferenza stampa all’albergo Tibesti. Il governo è composto da 31 membri (uomini e donne). 8 di loro rappresentano Bengasi, e la loro identità è nota, gli altri provengono da altre città del Paese (come Tripoli o Sirte). I rappresentanti delle città ancora sotto controllo del potere tengono segreta la loro identità. Infine, due membri abitano negli Stati Uniti in qualità di ambasciatori. La metà dei membri di questo nuovo governo, costituitosi in seguito alla liberazione di Bengasi, sono ex-detenuti del regime. Solo uno di loro faceva parte del governo, si tratta del presidente: Mustafa Abdhljalil, attorno a cui si è costituita l’attuale diplomazia. I membri del governo sono stati scelti dalle diverse tribù della Cirenaica poi presentati agli Stati Uniti e all’ONU – che dovevano trovare qualcuno che li assomigliasse con cui discutere. Certi membri di questo governo sono « in contatto permanente » con gli americani, tra l’altro tramite il nuovo ambasciatore libico laggiù. I Libici che purtroppo rifiutano ogni intervento straniero non sembrano così scioccati dall’evidente « ingerenza » degli USA e dell’ONU.

    Nell’insieme, a Bengasi, il governo provvisorio non sembra contestato pubblicamente. Occorre notare che, come già abbiamo detto, non prende, per ora, alcuna decisione importante che incida in un modo o nell’altro nella vita degli abitanti. Si occupa per ora di piacere agli americani e ai buffoni in giacca e cravatta dell’ONU. Si approfitta dell’unità dei « giorni prima della caduta del dittatore ». Il popolo è unito quando lotta contro questo mostro; le divisioni appaiono dopo, come ha dimostrato la situazione tunisina.

    Q., D., E., Ras Lanuf, Bengasi, l’8 marzo.

  2. traduction_en_italien dit :

    Encore une traduction d’un texte plus ancien en italien. (Autour de Ras Lanuf le 5,6,7 mars).
    Et ensuite une révision du dernier texte « Precisioni dalla Libia », qui contenait beaucoup de fautes (si vous pouvez le remplacer sur le site…)
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    Intorno a Ras Lanuf e sul fronte. 4-5-6 marzo.

    Approfittando della preghiera del venerdì, un assalto partito da Bengasi verso Ras Lanuf ha raggiunto, il 4 marzo, le forze che si battevano ad Agedabia. Dalla metà del pomeriggio fino alla sera macchine di ogni tipo si sono mosse velocemente verso Ras Lanuf, creando ingorghi in tutte le direzioni (caserme, installazioni per il gas, uffici della compagnia). Ogni incrocio diventava un luogo di discussioni strategiche e tattiche: come andare in un dato posto, come non farsi sparare da quelli appostati lì, etc. Le macchine che erano in prima linea hanno finalmente preso la città grazie a uno stratagemma complesso (sarebbe lungo da spiegare, e i ragazzi mi hanno chiesto di non svelarlo). Questo stratagemma è stato reso possibile grazie ai consigli di due ex-ufficiali dell’esercito. La sera, i combattenti dormono insieme nelle case degli abitanti, poveri o ricchi. Le donne sono (per ora) totalmente invisibili.

    La mattina del giorno successivo, mentre tutti ancora dormivano, una bomba è caduta in periferia e ha fatto tremare tutti i muri. Quel giorno ho oltrepassato il fronte di 100 km per andare a Nofalia. La città era sorvolata regolarmente dai Mirage F1 e dagli elicotteri Mi-24 che andavano in osservazione verso Ben Jawad. Nel tardo pomeriggio, ho trovato degli shebab sotto il fuoco di un Mi-24; erano andati oltre Ben Jawad. L’elicottero ha lanciato i suoi razzi vicino alla strada e poi ha sparato di nuovo con la sua mitragliera calibro 50 a tiro veloce e ci sono stati feriti. Ho saputo che un Mirage F1 era stato abbattuto vicino a Ben Jawad da un vecchietto con un cannone di piccolo calibro, il che è un piccolo miracolo (per congratularsi con lui i ragazzi gli dicevano : “sei un uomo migliore di me”).

    In complesso qui ci sono molte armi e munizioni (in realtà solo un uomo su cinque è veramente equipaggiato, poi ci sono gli autisti, quelli che sparano con i cannoni antiaerei, quelli che portano le munizioni o il cibo, etc.). Tutte queste armi e munizioni sono state saccheggiate nelle caserme. Infatti, se Zauia è così nei guai è appunto perché gli insorti non hanno potuto saccheggiare il suo deposito di munizioni.

    Questa abbondanza di armi e munizioni ha incoraggiato, nei primi tempi, un rapporto con esse che ha avuto delle conseguenze spiacevoli. Gli insorti hanno perso molto materiale. Gli incidenti sono molto frequenti (più volte delle granate sono esplose a 5-10 metri da noi). Le munizioni attive, fuori uso o solo difettose spesso sono semplicemente lasciate in mezzo al deserto. Le armi si rovinano, si riempiono di sabbia, sono lubrificate con della benzina (un soldato lo voleva fare con dell’esplosivo, non leggeva l’alfabeto latino). Degli obici sono stati portati via dalle caserme senza le loro tavole di tiro. Questo rapporto in apparenza poco “serio” rispetto alle armi è in parte dovuto al fatto che sono state vietate per tanto tempo. Da un lato gran parte delle persone non le sanno usare, ma dall’altro lato esercitano un fascino enorme su tutti. All’inizio, molte armi sono state tenute dalla gente a casa (anche granate di artiglieria, schegge di bombe, cose assurde). Ma le conoscenze pratiche si acquistano velocemente e molte armi iniziano a salire verso il fronte, a volte accompagnate dei loro nuovi proprietari. E poi ci sono anche queste altre armi, non meno importanti delle armi da fuoco, che sono i grossi pick-up bianchi la cui maggioranza, con le scritte in rosso ricoperte o sbarrate con una bomboletta, apparteneva alla polizia.

    Gli insorti si riappropriano in parte delle tecniche di guerra. Non conoscono le misure esatte ma riconoscono le munizioni. Quando non sanno i nomi dei materiali, ne inventano dei nuovi. Per esempio, il cannone antiaerei di 17,5 mm o 20 mm, che è l’arma per eccellenza di questa guerra è stato battezzato “min ta”, diminutivo di “melata erath”, “we have resistance”.

    Per quanto riguarda il rifornimento di cibo, si può dire che è impressionante. Gli insorti ne hanno sempre: una cifra di dolciumi vari, lattine di ogni tipo, bottiglie e bottigliette, biscotti, etc. All’inizio si poteva pensare che tutto questo era frutto dei saccheggi, ma ce ne sono sempre di più: credo che siano donazioni. La cosa più pazza sono questi bicchieri di acqua minerale sigillati che sono portati fino alla prima linea del fronte.

    Sabato sera, le truppe si sono disposte sulla strada in direzione di Sultan per prepararsi alla battaglia annunciata per i prossimi giorni ad Arawa. Durante la notte gli scontri hanno iniziato a Ben Jawad. La mattina, decidiamo di andarci. Il fronte è sulla strada, i nemici a più di 10 chilometri, non si vedono, le granate piovono a ritmo discontinuo. I tiri sono regolati bene per quanto riguarda la direzione, ma esplodono spesso troppo in alto o eccessivamente rasoterra. Siamo circondati dai tiri e dobbiamo battere in ritirata. I shebab contrattaccano, alimentano gli obici di 106 mm. Gli insorti si fanno massacrare, ci sono molti feriti, altri contrattacchi falliscono, l’artiglieria ci circonda di nuovo: andiamo via.

    La rivoluzione, questa domenica 6 marzo, ha dovuto affrontare i carri armati, gli elicotteri e i cecchini portati a Ben Jawad dai figli di Gheddafi. Adesso tutti sono molto tesi, la popolazione fugge da Ras Lanuf. Questa città è importante per Gheddafi ma rimane difficile da prendere: i ragazzi non vogliono ritirarsi e il terreno non è più libero per far passare l’armamento pesante. Questa mattina la gente continua a andarsene e rimangono solo i combattenti.

    D., Ras Lanuf, il 6 marzo.

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    Precisioni dalla Libia.

    Capiamo come possa essere complicato, dall’Europa, immaginarsi com’è la situazione qui in Libia. E’ difficile immaginarsi questi giovani inesperti gettarsi, disarmati, all’assalto di una strada bombardata dall’artiglieria. O capire che avere una discussione “politica” possa significare discutere tranquillamente della realtà del “complotto giudeo-massonico” con uno studente istruito e curioso. La rivoluzione libica non è per forza ciò che si crede.
    In una settimana di repressione il regime di Gheddafi si è reso insopportabile a un popolo poco abituato alle rivolte (la Libia non è la Grecia né la Cabilia). In questo articolo tenteremo di fare il punto, a un mese dall’inizio della rivolta, su cos’è la Libia “liberata”. Proveremo a condividere meglio ciò che ci vediamo e viviamo.

    Rifornimento.
    Per quanto riguarda il cibo, l’acqua, l’elettricità e la benzina, la situazione rimane molto stabile. Il cibo si acquisisce di solito come prima della rivolta, nei negozi riforniti dall’Egitto. I salari non sono più pagati però i risparmi personali rilasciati a contagocce dalle banche sono sufficienti. Prevenendo una pauperizzazione crescente e un arresto del sistema mercantile, i paesi del Golfo, Qatar e Emirati Arabi, insieme alla popolazione egiziana, hanno fatto passare dal confine cibo e prodotti per l’igiene, immagazzinati nelle città della Cirenaica. Dal 17 febbraio in poi, prima che la mancanza di cibo fosse divenuta percettibile, hanno avuto luogo tante iniziative per rifornire quelli che ne avevano bisogno; non le conosco tutte e a volte ignoro il loro funzionamento e la loro efficacia. Comunque nei giorni successivi al 17 febbraio, la solidarietà si è manifestata innanzitutto nelle donazioni spontanee di cibo da parte di singoli. Gli uomini che hanno preso le armi per organizzare i check-point hanno suscitato subito un grande slancio di solidarietà. Per esempio i proprietari di supermercati hanno dato le loro merci ai difensori della città.

    Il 26 febbraio, la Petrol Engineering Community, associazione fondata spontaneamente dai lavoratori del settore del petrolio, ha iniziato a raccogliere le donazioni dai quadri dell’industria petrolifera (da 2000 a 3000 Dl al giorno) per comprare cibo e vestiti per i soldati. Quando le forze di Gheddafi hanno attaccato Brega il 2 marzo, le donazioni sono aumentate fortemente. Dal 2 marzo fino a poco tempo fa si trattava soprattutto di bottiglie d’acqua, di latte, di succhi, di biscotti e di pastasciutta. Una parte importante di questo afflusso (sovrastimato) è stato distribuito ai viaggiatori che attraversavano i check-point. I profughi provenienti dall’Africa Centrale, dall’Africa Occidentale o dall’Egitto hanno parzialmente approfittato di questo aiuto (che era comunque ancora insufficiente per loro).

    Il 6 marzo, degli ex-scout diventati studenti hanno fondato “I giovani del cambiamento”. Questa organizzazione la cui gerarchia è un po’ formale (dopotutto sono scout) comprende una trentina di membri permanenti e più di 370 volontari mobilitabili per compiti vari tra cui il trasporto, la pulizia, l’aiuto negli ospedali o la pubblicazione di articoli. Sul piano del rifornimento, si occupano degli aiuti provenienti dal Golfo. Grazie ai loro agganci e alle loro relazioni sulla costa della Cirenaica, hanno stabilito alcuni depositi a Bengasi e convogliano le derrate alimentari verso la linea del fronte. Organizzano raccolte di armi e incitano coloro che ne hanno ancora a darle ai combattenti, anche se loro stessi non sempre lo fanno. Queste associazioni spontanee hanno legami con altre più vecchie di aiuto sociale e di solidarietà, e a volte con le nuove istituzioni di Bengasi.

    Istituzioni.
    Ci sono di fatto tre istituzioni ufficiali che per ora non hanno nessun edificio dedicato. Quella più conosciuta è il governo provvisorio o Consiglio Nazionale di Transizione. Solo una minoranza dei suoi membri sono conosciuti, poiché molti di loro sarebbero in incognito nelle zone occupate. Il suo ruolo è quello di stabilire relazioni diplomatiche e contatti con la stampa in vista di offrire alle potenze occidentali un’alternativa credibile al sistema di Gheddafi. La seconda istituzione, poco conosciuta, è il consiglio locale, la cui importanza sembra minore. L’ultima è il consiglio cittadino, a volte chiamato consiglio locale. Comprende 13 membri, tutti personaggi pubblici di Bengasi ognuno dei quali copre un settore dei servizi pubblici: economia, banche, educazione… Non ho approfondito molto questa istituzione, ma salvo ciò che concerne l’esercito di Bengasi, sembra poco attiva. I membri del consiglio cittadino sembrano contare su ciò che già esiste: le associazioni spontanee, le istituzioni che funzionano (compagnie petrolifere, ospedali, etc.). Per quanto riguarda l’energia il responsabile Ahmed Garoushi si interessa solo alla vendita del greggio disponibile a Tobruk (100’000 barili al giorno) e al recupero dei guadagni di questa vendita che dovrebbe avere luogo nelle prossime settimane. Questi soldi sarebbero messi a disposizione del consiglio cittadino e del governo provvisorio.

    Per capire meglio come si mettono in moto i meccanismi della controrivoluzione, occorre mettere in luce uno dei fenomeni più significativi di questa guerra rivoluzionaria: la formazione di “avanguardie“ e “retroguardie“ e poi cercare di capire ciò che non sembrava importante per tanti (noi compresi): i discorsi del popolo libico.
    La guerra, nei suoi primi giorni, non avrebbe potuto per niente essere compresa come un’opposizione tra “avanguardia“ e “retroguardia“. Innanzitutto, tutte le città liberate uscivano da scontri lunghi, difficili e sanguinosi, che avevano coinvolto tutti (manifestanti, amici, vicini, personale degli ospedali, volontari di ogni tipo). Brega è stata presa dai suoi propri abitanti, e quando quelli di Ras Lanuf hanno ricevuto l’appoggio della gente di Bengasi una città intera si è mobilitata. Ogni abitante andava a combattere con l’arma che aveva trovato o con quella di un amico.

    La formazione di un’“avanguardia“…
    La truppa di combattenti che poi diventerà “l’armata del popolo” durante le battaglie di Ben Jawad, Ras Lanuf, Brega e Agedabia è nata dopo la festa delle vittorie e la sconfitta di Ben Jawad. Questa truppa, male armata, non addestrata, si è caratterizzata per la sua incapacità di avanzare più di 300-600 metri alla volta, per il suo lungo e difficile apprendimento della necessaria velocità di movimento e discrezione, e per una tempistica d’azione che assomiglia più ad una gita tra amici che ad una guerra. Quando l’ho lasciata, questa truppa non aveva né cannoni senza rinculo, né lanciarazzi, né mortai, né katiuscia, né elmetti, né giubbotti antiproiettile, e pochissime armi leggere.

    Un’altra componente del fronte, quasi invisibile, è ciò che rimane dell’esercito, riorganizzato attorno ad alcuni ufficiali. Le uniche truppe veramente fedeli agli ordini sembrano essere le forze speciali. L’uso dei katiuscia, elementi indispensabili di questa guerra, è un po’ particolare. I loro tiri sono regolati dalle forze speciali, così mi hanno detto, però ho anche visto munizioni trasportate dal popolo autorganizzato. L’uso di queste armi è stato decisivo durante le offensive massicce del popolo armato (come a Ben Jawad o a Sidra). E’ quindi probabile che l’esercito ufficiale abbia avuto un ruolo importante in certe vittorie, ma appogiandosi sistematicamente agli assalti popolari e in molti casi esponendosi molto meno di loro.

    …e di una “retroguardia“
    Questo esercito organizzato ha invece una presenza importante in ciò che si è ormai costituito come “retrovia » del fronte. Solo le forze speciali sembrano presenti permanentemente sul campo. L’esercito invece organizza la formazione di nuove forze in una caserma, gestisce probabilmente grandi quantità d’armi e ha un legame permanente con l’embrione di Stato che sta nascendo. Questo corpo di soldati è caratterizzato dal segreto e dalla diffidenza. Non sono quelli del fronte, ma sono questi ragazzi in divisa che detengono gli equipaggiamenti e che indossano i giubbotti antiproiettile. Le radio a lungo raggio, il materiale ottico potente, le armi di grosso calibro di ultima generazione si trovano nel loro campo di addestramento. Le voci dicono che ci sarebbe un battaglione di 200-300 uomini equipaggiati bene e che impara a marciare al passo. Molti di loro lasciano il campo per raggiungere l’armata del popolo sotto i bombardamenti.

    E’ certo che gli ufficiali di domani, quelli che riceveranno le medaglie e le pensioni, non sono quelli che si organizzano al di là di ogni gerarchia. Per questi ultimi esiste una realtà particolare, diversa e confusa. Si preoccupano dell’avanzata delle truppe nemiche, del rifornimento di armi, della sorte dei traditori e dei nemici. E’ importante la contraddizione fra i civili che combattono e gli altri nelle città. Presenti nei momenti di festeggiamento questi ultimi hanno disertato subito una guerra che in realtà non capiscono. A Bengasi, evitano la questione affermando che Gheddafi è finito e ascoltando canti patriottici.

    Il criterio di riappropriazione delle armi da parte del popolo è stato quello dell’appropriazione privata e non quello dell’uso collettivo. Ci sono quindi migliaia di Kalashnikov, di Rpg, e anche di 30 mm che giacciono sotto i materassi o nei garage di Bengasi. Nella città, oltre l’esercito ufficiale di cui abbiamo appena parlato, nessuno sa precisamente cosa succeda sul fronte. Tutti sembrano fregarsene, nessuno sembra interessarsi troppo alla questione. Non si sentono coinvolti in questa guerra che non hanno voluto. I discorsi qui sono le frasi ripetute centinaia di volte dalla gente in strada, centinaia di: « Gheddafi monkey », « Gheddafi crazy »; sono le centinaia di caricature di Gheddafi, dei suoi discorsi. Il problema è Gheddafi, Gheddafi e non i suoi figli, Gheddafi e non il suo esercito, Gheddafi e non la sua polizia. Concedono a malapena che degli stranieri, dei mercenari di colore possano essere considerati allo stesso livello di « Gheddafi l’africano ». Qui la concordia nazionale può essere rievocata ad ogni momento. Il popolo e la gioventù si sono riappropriati del lavaggio di cervello.

    I morti intralceranno sicuramente ogni tentativo di riconciliazione nazionale, ma sono stati seppelliti secondo il rito religioso. Non sono dei guerrieri, dei vinti, ma dei martiri, non li si deve piangere. I Libici devono rispettare la pace e Dio, prima delle loro amicizie e dei loro desideri. Le cinque preghiere al giorno glielo rammentano sempre, anche sul fronte. La religione è una parte importante dei discorsi, nei cortei si canta che l’unico Dio è Allah e che Allah è grande.

    Il motore principale di questa rivolta sembra essere la reazione all’orgoglio smisurato di Gheddafi che si è permesso di voler sterminare un popolo che chiedeva al massimo delle riforme o la presa del potere da parte di Saif al Islam. Tutte le forme di propaganda, di logistica, di combattimento, di organizzazione inventate fino ad ora dalla rivoluzione sono stati ripresi direttamente dal modello di Gheddafi. La rivoluzione si impara forse nei gruppi di combattenti o di giovani volontari, che vivono la lotta insieme e l’organizzazione collettiva, sempre precaria di fronte ai tentativi di formalizzazione qui onnipresenti.

    Q. e D., Bengasi, il 17 marzo.

  3. traduction_en_italien dit :

    Voici la traduction du dernier article sur la Lybie en italien :

    Geddhafi attacca Bengasi.

    Ieri sera, i giovani si ammassavano davanti al campo di addestramento e chiedevano armi e munizioni, che adesso mancano terribilmente agli insorti. La linea del fronte era ancora a 50 chilometri da Bengasi. Gli insorti sono stati bersagliati da un katiuscia e poi dalle mitragliatrici leggere. Probabilmente coloro che attaccavano disponevano di sistemi di visione infrarossi o persino termici. Nei quartieri a sud di Bengasi gli abitanti montavano delle barricate di fortuna e preparavano centinaia di molotov. Tutta la notte le moschee ripetevano a nastro che Allah è grande e l’unico.

    Stamattina verso le 6 abbiamo sentito numerosi bombardamenti a sud. Le strade erano totalmente deserte. Un aereo di Gheddafi ha sganciato delle bombe nelle vicinanze dell’università e del campo di addestramento. I lealisti hanno preso possesso dell’università dove hanno appostato numerosi cecchini. La zona d’esclusione non è rispettata da nessuno, però questo sembra girare a favore delle forze di Gheddafi. Quest’ ultime non sembrano comunque voler ancora addentrarsi nella città, sennò sarebbero già qui con i loro carri armati. Sono per ora concentrate a sud, e potrebbero muoversi verso nord per circondare la città. Sono in questo momento a due chilometri dalla mia posizione attuale e potrebbero troncare ogni comunicazione a breve.

    Il morale degli abitanti è minato. Molti cedono al disfattismo e si rassegnano di morire. Altri si gettano in una guerra urbana che promette di essere una strage. E’ probabile che la città sia circondata o persino presa nei prossimi giorni.

    Aggiornamento: stamattina ci sono stati 25 morti tra gli insorti e almeno 13 feriti. Sono stati colpiti dalle bombe all’università a sud e a Tabalino a est, e dai cecchini a Al Fuwaia. I lealisti hanno tentato un accerchiamento passando attraverso Tabalino, un quartiere di palazzoni in periferia, ma hanno perso 4 vecchi carri armati e almeno 2 uomini.
    Hanno a disposizione almeno altri 5 carri armati nuovi fiammanti.

    Aggiornamento 2: A sud di Bengasi il terreno è senza ostacoli, l’università è abbastanza distante dalle abitazioni più vicine ed è dunque la postazione perfetta per l’utilizzo combinato di cecchini e artiglieria di Gheddafi. Quando i lealisti hanno cercato di circondare la città da est sono entrati nelle zone urbane. Nonostante il loro equipaggiamento superiore, hanno subito una sconfitta. Cercheranno dunque probabilmente di aggirare l’ostacolo passando più a est, in terreno più agile.
    Per il momento, il fatto che la gente si sia tenuta le armi a casa si è rivelata piuttosto positiva in un tale frangente. I capifamiglia escono con le loro proprie armi per strada.
    Se dispongono per davvero di ottiche adattate, i lealisti potrebbero passare in vantaggio nei combattimenti notturni, anche in piena città.

    Bengasi, il 19 marzo.

  4. lollardo dit :

    Sono un cittadino italiano. Da più di vent’anni ho manifestato contro gli interventi armati

    vorrei che a sinistra non ci si limitasse alla tautologia: gli stati che fan la guerra si muovono per interessi politici ed economici, per conquistare prestigio, egemonia, mercati.
    Noi che facciamo mentre la guerra è in corso? Avete notizia di brigate internazionali in lotta contro Gheddafi? Io no, per ora.
    Credo che a questo punto le priorità politiche (per un’analisi e per un intervento) siano queste:

    1) Chi sono gli insorti libici? Meritano il nostro appoggio? Quale genere di appoggio possiamo dare a loro? Non credo che si tratti di una « lotta tribale ». Gli insorti devono essere annientati da Gheddafi? Io credo che non debbano soccombere né a Gheddafi né all’egemonia di potenze straniere.
    2) Cosa devono fare gli insorti e cosa dobbiamo fare noi affinché gli insorti sconfiggano Gheddafi e/o i libici non perdano sovranità a favore di potenze straniere?

    Le « rivoluzioni » non nascono né dalla testa di Giove, né da un manuale. Ogni lotta è una strada stretta. Tra gli insorti ci sono anche personaggi che fino a ieri stavano con Gheddafi. Non credo, però, che gli attori del conflitto siano solo questi. Si tratta di un movimento composito.
    Gheddafi si può comprare mercenari. Gli insorti, per non crepare, si trovano costretti a giocare alla roulette, a surfare sull’intervento straniero.

  5. lollardo dit :

    Scusate. Stavo scrivendo il mio intervento e l’ho inviato prima di finire. Quello che vi ho inviato è una parte della lettera che ho spedito ad amici e compagni dopo il 21 marzo. Dicevo che per anni ho manifestato contro gli interventi armati delle potenze occidentali, ma questa volta non credo che manifestare contro la guerra sia sufficiente, oltre che onesto.
    Vorrei esprimere, per quello che vale, la mia solidarietà agli insorti. Mi auguro che la lotta del popolo libico porti libertà e democrazia. Democrazia è anche sovranità sulle proprie risorse. Le royalties che pagano le compagnie straniere alla Libia, mi pare di capire, sono notevoli. Spero che il futuro governo della Libia mantenga royalties così vantaggiose e possa allo stesso tempo recuperare le ricchezze accumulate, in Libia e all’estero, da Gheddafi e dai suoi complici.
    Ringrazio gli autori di questo blog.
    L.

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